La Venere Ericina

di Ignazio Concordia
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Il monte Erice è stato, sin da tempi antichissimi (preistorici), sede di un culto in onore di una dea che fu simbolo, prima, della fecondità, e poi anche dell'amore e della bellezza. L'aspetto del monte, che sembra più alto di quanto in realtà non lo sia (m. 756, cfr. Strabone, VI 2 6) e che spesso è avvolto sulla cima da una nebbia che lo rende ancora più misterioso (alla stregua del famoso Olimpo, considerato dai Greci la sede dei loro dei), ha favorito senza dubbio la nascita di questo culto, forse per la correlazione che gli antichi supponevano tra l'acqua e la fecondità (cfr. V Adragna., Erice, Trapani, 1986).
Il culto è attestato da parecchi autori: oltre a Strabone sopra citato, Diodoro, nel racconto mitico degli onori resi da Enea alla dea da lui riconosciuta come sua madre, conferma che il tempio fu straordinariamente venerato e rispettato dai Romani in quanto questi vedevano nella loro mitica progenitrice la causa prima delle loro vittorie militari e della loro fortuna politica: « Dicono che Erice fosse figlio di Afrodite e di Bute, un re indigeno di fama eccezionale ; questi, per la nobiltà da parte della madre, era ammirato dagli abitanti del posto e regnava su parte dell'isola. Fondò anche una città sua omonima, degna di menzione, situata in un luogo elevato; sulla rocca della città innalzò il sacro recinto della madre, e lo abbellì con la costruzione del tempio e l'abbondanza dei doni. La dea, in virtù della devozione degli abitanti del luogo e dell'onore triButetole dal figlio, amava in modo straordinario la città: perciò la stessa Afrodite è detta Ericina. Ci si potrebbe meravigliare, ovviamente, considerando la fama che circonda questo santuario: gli altri sacrari infatti, fiorenti per fama, spesso hanno perduto, a causa di varie vicissitudini, importanza; invece questo solo, che ebbe origine dai primordi del tempo, non cessò mai di essere onorato, anzi, al contrario, vide accrescersi sempre più la sua fama. Dopo gli onori, infatti, resi da Erice, di cui abbiamo parlato, Enea figlio di Afrodite, navigando verso l'Italia e approdato nell'isola, adornò il tempio con molte offerte, come se fosse della propria madre. Dopo di lui i Sicani, onorando per molte generazioni la dea con sacrifici, lo dotarono di splendide offerte; dopo di che i Cartaginesi, signori di una parte dell'isola, non tralasciarono di venerare la dea in modo straordinario. Infine i Romani, impadronitisi di tutta la Sicilia, superarono tutti i loro predecessori in onori verso di lei. E facevano ciò per ovvi motivi: poiché la loro stirpe risaliva ad essa e per questo le loro imprese avevano esito felice, contraccambiavano colei che era la causa del loro successo con i dovuti ringraziamenti. Infatti i consoli e i governatori che giungono nell'isola, e tutti coloro che la visitano investiti di una qualsiasi autorità, quando si recano a Erice, con splendidi sacrifici e onori adornano il santuario e, deposto il volto austero dell'autorità, passano a scherzi e a compagnie di donne con molta allegria, in quanto sono convinti che solo così rendono la loro presenza gradita alla dea. Anche il senato di Roma, volendo onorare da parte sua la dea, decretò che le diciassette città più fedeli della Sicilia pagassero ad Afrodite un tributo in oro e che duecento soldati custodissero il tempio» (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 83).
Cicerone attesta la presenza di schiave sacre (ierodule) ancora al tempo del processo contro Verre (70 a.C.: cfr. Divinatio in Q. Caecilium, 55) e nella Pro Cluentio (15, 43) sottolinea il numero ingente anche degli schiavi pubblici di Venere, addetti alla sorveglianza e alle funzioni del tempio.
Questi schiavi, chiamati Venerii, potevano riscattarsi divenendo liberti o libertae della dea. Una di loro, una certa Agonide, di Lilibeo, fu protagonista di un caso giudiziario riferito dallo stesso Cicerone (nella Divinatio testè citata) per mettere in cattiva luce il comportamento di Verre che, invece, secondo G. Martorana (Il riso di Demetra in Sicilia, Palermo, 1985, p. 78 ss.) si mostrò favorevole alla dea, rimanendo nel solco della politica religiosa di Roma nei confronti di questo antico e venerato santuario. Che le proprietà della dea fossero considerate sacre ed inviolabili lo troviamo attestato anche in Eliano (N. H., X, 50) il quale racconta che il libico Amilcare era morto impiccato per avere spogliato sacrilegamente il santuario ericino e che la morte violenta dei suoi compagni fosse dovuta alla medesima colpa. Roma stessa, nel 248 a.C., aveva bandito dall'Italia alcuni mercenari Galli che avevano saccheggiato il tempio, sebbene essi avessero tradito i Cartaginesi per passare nelle file dei Romani (Polibio, II, 7). Tacito (Annales, IV, 43) a sua volta riferisce di un'ambasceria di Segestani all'imperatore Tiberio (nel 25 d.C.) perché ricostruisse il tempio ormai crollato: «I Segestani domandarono che si restaurasse il tempio di Venere sul monte Erice, crollato per vetustà, rammentando sulla sua origine avvenimenti noti e graditi a Tiberio; egli si assunse volentieri quella cura, quale consanguineo» (della dea, dato che la gens Iulia, a cui Tiberio apparteneva per adozione, si vantava discendere da Enea e da Venere).
La richiesta, pare, non fu subito accolta o esaudita, se, qualche anno dopo, l'imperatore Claudio (41-¬54 d.C.) a detta di Svetonio (Vite dei Cesari, V, 25) «fece la proposta di ricostruire a spese pubbliche il tempio di Venere Ericina, in Sicilia, ormai cadente per vetustà ». Non c'è da meravigliarsi pertanto se tale culto, cantato anche da poeti quali Virgilio, Silio Italico e Stazio, ebbe un'enorme diffusione in tutto il mondo antico e rimase fortemente impresso nella pratica religiosa delle popolazioni locali fino a quando non fu soppiantato, ma con fatica, dal culto cristiano della Madonna di Custonaci. Il nome della dea (identificata, dal Pace e dal Manni, con la Signora dei popoli mediterranei) subì dunque i cambiamenti linguistici imposti dal succedersi delle varie culture: la fenicia Astarte fu sostituita dalla greca Afrodite e infine dalla romana Venere, ma tutti e tre questi nomi sono accompagnati dall'epiteto costante di Ericina, ad indicare la peculiarità del culto siciliano della dea e del relativo rituale, che era caratterizzato tuttavia da una simbologia di origine orientale, come orientale era del resto la provenienza della stessa dea, che risale con tutta probabilità, in epoca ancora più antica, all'accadica Inanna e alla sumerica Ishtar (senza volere, con ciò, escludere del tutto l'ipotesi mediterranea di alcuni attributi della stessa dea e del suo rituale, tipici della Grande Madre di cui parlano il Pace e il Manni). Il volo delle colombe, fra cui la colomba rossa di chiara ascendenza fenicia, i cani da guardia del tempio (i famosi cirnechi anch'essi di origine fenicia) e soprattutto la prostituzione sacra esercitata dalle ierodule sono tutti aspetti del rito riscontrabili a Babilonia, Pafo ed in altre località, sedi di famosi santuari della dea.
L'origine orientale di Afrodite-Venere è inoltre sostenuta dal fatto che nell'Iliade la dea parteggia sempre per i Troiani e per il figlio Enea, a proposito del quale è da rilevare che Diodoro, nel brano sopra riferito, non lo considera (come fa Virgilio in Aen., V, vv. 759 - 760) il fondatore del tempio di Venere Ericina, ma attribuisce questa funzione all'eroe locale Erice: la qual cosa conferma ancora una volta che i Greci si appropriarono di miti locali (oltre a crearne di nuovi) per legittimare il loro diritto ad intervenire in Sicilia e ad occupare l'isola. Erice, come abbiamo detto, era figlio di Bute; diversi personaggi della leggenda attica portano questo nome; il Bute di cui qui si parla partecipò alla spedizione degli Argonauti ed ammaliato dal canto delle Sirene si tuffò in mare, ma venne salvato da Afrodite che lo portò a Lilibeo e gli generò il figlio Erice.



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