Per tophet s'intende un luogo sacro a cielo aperto, separato dall'abitato, nel quale venivano depositate urne contenenti ossa calcinate di bambini e di animali poste assieme o separatamente. La prima scoperta di questo tipo di deposizione risale al 1889 ad opera di Vivianet a Nora, seguì nel 1919 il rinvenimento a Mozia effettuato da G. Whitaker, nel 1921 la “dépêche tunisienne” dà notizia della scoperta del tophet di Cartagine. L'analisi della documentazione archeologica consentì di fare un passo in avanti nell'identificazione della scoperta; a Poinssot e Lantier si deve infatti la prima riflessione sull'argomento. Il loro articolo scritto nel giugno 1922 e pubblicato all'inizio del 1923 sulla “Revue de l'Histoire des religions” pone la parola fine sull'identificazione della necropoli del sito africano: “... Nei santuari di Cartagine e di Mozia siamo con ogni probabilità in presenza del vecchio rito siro-palestinese dell'offerta del primogenito che i genitori bruciavano davanti ai betili di questi santuari come davanti al tophet di Hinnon”. Il tophet, elemento essenziale delle comunità fenicie del Mediterraneo occidentale (Sicilia, Sardegna, Cartagine), non trovò rimando nella Fenicia e a Cipro. Il termine che indica questo tipo di sepoltura non è fenicio, bensì ebraico, e si trova citato nell'Antico Testamento come TPT, vocalizzato successivamente in “tophet” dai Masoreti (dotti rabbini che operarono tra il V e il X sec. d. C.).
La necropoli sacra menzionata dal testo biblico era ubicata nella valle di Hinnon presso Gerusalemme e secondo la Scrittura vi si celebrava un sacrificio consistente “...nel far passare attraverso il fuoco” lattanti di entrambi i sessi. Sembra, tuttavia, che tale pratica venne abolita nel 622 a.C. per volere di Giosia, re di Giuda (Re 23.10). Ancora la Sacra Scrittura da nozione della divinità a cui venivano offerti i sacrifici dei lattanti il Levitico e il Libro dei Re (23.10) fanno menzione di MLK vocalizzato in Moler. Nelle lingue semitiche occidentali questo termine indica “il re” o comunque il regnare ed è spesso associato alla divinità. Da quello che cogliamo nella Bibbia (Re.16.3), dove si fa menzione della condotta di Acaz, re di Giuda [736-716 a.C.], apprendiamo che “[...] imitò la condotta dei re d'Israele e fece persino bruciare suo figlio secondo le usanze abominevoli delle genti che Jahvè aveva cacciato davanti ai figli d'Israele [...]”.
I popoli a cui si fa riferimento sono quelli posti al di là del Giordano coi quali gli Ebrei erano stati in lotta diverse volte, e non alla Fenicia, riguardo alla quale non si fa riferimento ad alcun sacrificio di bambini. Nell'antichità i sacrifici umani furono praticati da popoli di origini diversa in svariate epoche.
Tra gli Ebrei, per esempio, Iefte, uno dei giudici di Giuda, bruciò in sacrificio la propria figlia in onore di Jahvè come ringraziamento per la vittoria riportata sugli Ammoniti, e re Giosia immolò i sacerdoti delle alture di Samaria. La pratica di sacrifici umani nella zona di Amman trova ulteriore conferma nella scoperta archeologica di ossa animali associate ad altre di tipo umano in un tempio di XIII sec a.C. scoperto in occasione della costruzione dell'aeroporto della città. Presso i Greci i sacrifici umani erano già cessati in epoca omerica se escludiamo quello compiuto da Achille in memoria di Patroclo; tuttavia gli Elleni erano consapevoli che nei loro riti e nei miti c'erano elementi che contemplavano tali pratiche. In tal senso possiamo citare Dionisio d'Alicarnasso che nelle “Antichità romane” scrive:“Si dice che gli antichi sacrificavano a Crono nel modo in cui si faceva a Cartagine fino a che la città sopravvisse” [I.38.2] o ancora Sesto Empirico: “Alcuni sacrificano un uomo a Crono come gli Sciti sacrificavano gli stranieri ad Artemide” (Ipotiposi pirroniane 3.208). La letteratura greca si arricchisce poi di una serie di nozioni aneddotiche concernenti l sacrificio d'infanti da parte dei Fenici del Mediterraneo occidentale; in questi trattati, oltre alla curiosità mostrata dagli scrittori per gli usi e costumi altrui, si ravvisa in maniera abbastanza chiara la precisa intenzione deprecativa volta verso il barbaro e sulle sue efferate usanze. Clitarco fa riferimento ai sacrifici di bambini che i Fenici e soprattutto i Cartaginesi operavano quando “volevano qualcosa d'importante”; l'autore aggiunge inoltre che nella città africana le piccole vittime venivano deposte nelle mani della statua e fatti rotolare in un bacino di fuoco. Tuttavia la fonte sembra alquanto artificiosa per poter essere presa seriamente in considerazione. In un testo di Porfirio (234-305 d.C.) leggiamo che “in occasione di grandi calamità […] i Fenici sacrificavano una vittima scelta tra le persone più amate, e la designavano con un voto come vittima a Crono. Esempi di questi sacrifici abbondano nella storia fenicia scritta da Sanchuniaton in lingua fenicia e tradotta in greco da Filone di Biblo in un'opera di otto libri”. I due autori di maggior rilievo su cui si fonda l'intera storiografia moderna sul tema del sacrificio di bambini sono Diodoro Siculo e Plutarco, entrambi gli autori parlano di tale sacrificio a Cartagine e non in Fenicia; sembra tuttavia, dalla lettura dei passi delle opere di entrambi gli storici, che tale rituale avesse più una valenza eccezionale piuttosto che rivestire un aspetto delle pratiche cultuali “abituali” dei popoli fenici d'occidente. Detto ciò possiamo affermare che nella società fenicia la pratica sacrificale riguardante la consacrazione di bambini a certune divinità non venisse praticata né regolarmente né sistematicamente. Inoltre sappiamo, grazie alla ricerca archeologica, che il tophet non è presente in tutte le comunità del Mediterraneo occidentale; siffatti santuari sono stati identificati a Mozia, Cartagine, Nora, Sulcis, Tharros, Monte Sirai, Pani Loriga, Bitia e Cagliari; tuttavia non esistono sulla costa andalusa, né sulla costa africana ad ovest di Cartagine.
I tophet presentano dei tratti comuni: intanto sono ubicati in genere ai margini della città: a Cartagine è a sud, a 50 m dal mare, e a Mozia sulla costa settentrionale dell'isola. A Nora il sepolcreto è sito fuori le mura al di là dell'istmo, e la medesima collocazione la ritroviamo a Sulcis. A Tharros le mura inglobano il tophet che è relegato a nord del quartiere abitativo; a Cagliari è stato ritrovato ad ovest della città, tra il sito e la collina di Sant'Avendrace. A Bitia la necropoli è collocata sull'isola di Su Cardulinu. In genere il sito destinato ad accogliere il tophet era vergine e, nel caso in cui fosse stato precedentemente occupato, veniva riadoperato solo dopo un lungo periodo d'abbandono come accade a Mozia dove il terreno è risultato cosparso di frammenti riferibili all'età del bronzo o ancora Tharros dove i Fenici ubicarono il proprio tophet sui resti di un abitato indigeno. In questo caso gli scavi hanno posto in luce sei capanne circolari e hanno mostrato in che modo il sito venne rimaneggiato per ospitare il sepolcreto dove si rialzarono i muri delle capanne per creare degli anfratti artificiali dove poter disporre le urne.
Il tophet è unico per ciascuna città e il sito prescelto, una volta individuato, non veniva più modificato e va constatato come, a differenza di alcune necropoli, il tophet in nessun caso varrà interessato da costruzioni fenicie che ne compromettano l'originaria sistemazione. La necropoli sacra doveva avere un'apparenza caotica: le urne, infatti, disposte sulle rocce o in una cavità, più o meno attrezzata a seconda della morfologia del terreno, sono poste al riparo di alcune pietre piatte e sormontate in genere da cippi. Tale sistemazione appariva come un monticello ed è tipico delle necropoli site a Mozia, Tharros e Cartagine. L'utilizzo di anfrattuosità naturali così come la creazione di muretti o il riutilizzo di strutture più antiche come nel caso di Tharros sembrerebbero esprimere una precisa volontà di partizione dello spazio destinato alla deposizione; tuttavia ne ignoriamo la funzione (anche se non si può escludere che tale suddivisione possa essere riferibile ad un riflesso della struttura sociale). Sono talora presenti sul tophet alcuni tempietti o sacelli (Mozia, Sulcis e Monte Sirai), tutti ascrivibili al VI sec. a.C. A Mozia e a Sulcis queste costruzioni sono posteriori alle prime deposizioni. A Monte Sirai invece l'edificio è circondato dalle urne. Tutte queste strutture furono inoltre rimaneggiate tra il IV e il III sec. a.C.; non conosciamo con precisione la funzione che esse rivestirono anche se non escludiamo che, trattandosi di una necropoli con una valenza sacra, esse fossero strettamente connesse con le pratiche cultuali contemplate in loco.
Ogni urna conteneva ossa calcinate dei bambini o degli animali e veniva otturata con argilla cruda o con una lastra dipinta in rosso; sopra veniva collocato un piatto fondo o piano e una lampada, posta spesso presso il contenitore, che completava la deposizione. All'interno, oltre ai resti organici, si trovano anche alcuni amuleti, elementi di parure (collane, orecchini, pendenti, anelli e bracciali) o mascherine.
Altro elemento di indubbio interesse è il luogo in cui avveniva l'incinerazione; ad oggi si conoscono solo due strutture deputate a questa pratica: a Nora venne rinvenuta dal Vivianet una struttura semicircolare, mentre a Bitia sull'isolotto di Su Cardulinu venne trovato un altare circondato da urne, deputato, con ogni probabilità, al rogo. L'analisi delle ceneri delle urne ha rivelato inoltre come venissero predilette talune specie vegetali (nello specifico Lentisco, Leccio e rami d'Ulivo).
Dopo l'analisi dei tratti comuni ravvisati nei tophet dislocati nel Mediterraneo occidentale passiamo ora alle conclusioni. Uno dei dati che emerge con maggior chiarezza nel tophet è che le urne contengono esclusivamente resti di bambini morti in tenera età (alcuni addirittura alla sesta o settima settimana di vita). Considerando che nelle necropoli fenicie i “non adulti” hanno un posto assai limitato, è plausibile presupporre che il tophet, almeno secondo il mio parere, sia una necropoli infantile ma non un luogo di sepoltura comune, bensì un'area consacrata. Non a caso infatti a partire dal IV sec a.C. i tophet si arricchiscono di iscrizioni dedicatorie a Baal-Hammon il cui culto, come apprendiamo dalle fonti, non contemplava il sacrificio umano. Il numero ingente delle deposizioni non ci deve fuorviare; siamo, del resto, in un periodo in cui la mortalità infantile era assai alta e non stupirebbe quindi che le comunità fenicie avessero riguardo per i loro figli che trovavano estrema dimora in un luogo sacro.
Sicuramente la letteratura del tempo dovette guardare con sospetto la pratica dell'incinerazione per gli infanti; infatti la cultura greca contemplava tale pratica solo per gli eroi ed era perciò facile che il bambino morto per cause naturali e incinerato potesse facilmente esser trasformato in vittima barbaramente bruciata. Il fatto che assieme alle ossa umane si trovassero anche quelle animali fa presupporre che la deposizione del bambino fosse associata a un rito catartico (a dimostrazione di quanto affermato stanno le ossa dei cani trovati all'interno dei tophet) o propiziatorio per impetrare la venuta di un nuovo bimbo.
Dopo questa digressione affrontiamo la questione del tophet di Cartagine. I primi scavi di quest'area furono intrapresi nel 1924 dal Kelsey e pubblicati nel 1937 da Harden; seguì poi la missione di Cintas avviata nel 1944 per conto dei Services Antiquités di Tunisi. Questa campagna di scavi permise di mettere in luce i livelli più profondi della necropoli fino alla roccia naturale (7 m); qui gli studiosi trovarono delle urne collocate in anfratti rocciosi. Durante la ricerca vennero alla luce dei muretti che, così come a Mozia e a Tharros, sembravano suddividere lo spazio interno dell'area. Cintas interpretò, seppur sbagliando, queste strutture come fondamenta di un santuario; sarà in seguito lo stesso studioso a confutare questa primitiva interpretazione. Lo scavo permise inoltre la scoperta, in un anfratto roccioso allargato, di 13 vasi e di un oggetto eburneo. La cavità in questione era chiusa da una lastra ottenuta da “una casseratura di assicelle che tratteneva del calcare frantumato sul quale era stata gettata dell'acqua” (Cintas, Revue Tunisienne, 1948, pp. 24- 25) e sistemata nel seguente modo: 11 vasi e l'oggetto di avorio erano “disposti direttamente sulla roccia”. Sopra questi reperti si trovava una lampada fenicia di “terra rossa” a due becchi e un'altra urna anch'essa di fabbrica fenicia. Quest'ultima, di un tipo ben rappresentato a Cartagine, era messa in piedi e Cintas dice in merito che “l'estremità del collo toccava il lastrone di chiusura”, e “conteneva elementi di collana: 3 amuleti di stile egizio in pasta silicea (pasta vitrea) raffiguranti la dea Basit come gatta seduta. Due di questi sono inseriti in una scatola d'argento che imita un piccolo sarcofago privo di coperchio. Alcune perle, un filo d'oro attorcigliato, una piccola maschera d'avorio e frammenti di selce completano l'armamentario. Al fondo dell'urna si trovava un deposito grigio di ceneri […]”. Gli oggetti presenti nella cavità sono i seguenti: una spatola d'avorio con manico e testa di cigno, un vaso fenicio con ansa laterale di VII sec. a.C. di uso funerario noto a Cartagine e a Mozia, una brocca a orlo dritto (olpe) con spalla decorata a motivo a zig zag (tipico dell'area euboica noto a Tarquinia, Ponte Cagnano e Milazzo), un askos a forma di volatile d'ispirazione euboica ma di produzione locale, un vaso aspersorio decorato a denti di lupo e scacchiera, opera di un artigiano euboico operante in occidente, tre oinochoai decorati a denti di lupo e scacchi o a intrecci (come la coeva produzione corinzia) e due skyphoi del tipo “Aetos 666”, il cui nome deriva dagli analoghi esemplari scoperti ad Ethos sull'isola di Itaca databili alla prima metà dello VIII sec. a.C. e noti anche nell'area di Pitekussa e nella parte orientale della Sicilia.
Non lontano da questo primo deposito Cintas scoprì un secondo anfratto naturale che conteneva solo due oggetti: una lucerna punica a un becco e un'anfora con anse a torciglione con decorazione geometrica su spalla e collo; l'esemplare in questione è paragonabile ad un analogo manufatto proveniente dall'area beotica e ascrivibile al geometrico medio. Si può affermare che tutti i vasi del primo strato del tophet cartaginese appartengono ad una fabbrica greca; si tratta con ogni probabilità di una maestranza euoboica trasferita in occidente (a Pitekussa o Cartagine) anche se non si esclude che l'anfora provenga dalla madrepatria.
I vasi del primo lotto sono tutti coevi ma di periodo differente rispetto ai ritrovamenti fenici che invece sono ascrivibili al VII sec. a.C.; in merito a quanto appena affermato possiamo quindi elaborare due ipotesi: o il corredo greco, deposto in un primo momento, è stato successivamente rimaneggiato con l'aggiunta del materiale fenicio, oppure potrebbe trattarsi di una deposizione correlata strettamente col tophet, ossia l'urna conteneva le ceneri di un infante, appartenente ad una famiglia di alto rango che adoperò vasi di un certo pregio. Stessa cosa si può sostenere per il secondo rinvenimento. Cintas aveva identificato questi depositi come votivi o comunque legati alla fondazione del sito; tale supposizione sarebbe tuttavia da scartare. L'anfora infatti, che era del tutto deformata, era immersa nell'acqua e nel fango e non ha restituito ossa calcinate; quindi potremmo trovarci di fronte ad un contenitore che aveva conservato un feto. La lucerna presente nella sepoltura sembrerebbe confermare la presenza di un entykrismos (ossia una deposizione neonatale). Il dato più caratteristico è che un vaso di stile greco si trovava nel tophet fenicio di Cartagine. Ciò potrebbe essere un riflesso di un matrimonio misto tra un elemento fenicio e uno euboico. La commistione delle compagini etniche non deve stupire; ad esempio, a Pitekussa i Fenici sono sepolti nella necropoli greca secondo riti ellenici. Nel 1934 padre La Peyere scoprì un reperto eccezionale nel sepolcreto africano; si tratta di un'urna dotata di anse bifide e coperchio, con vernice rossa (tipico elemento delle ceramiche fenicie), salvo una fascia nella quale sono visibili uccelli alternati da diabolos. Ancora una volta siamo di fronte ad un vaso dalla tettonica fenicia ma decorato alla greca; ciò induce ad ipotizzare, in relazione anche agli altri reperti sopra citati, che nella Cartagine di VIII sec. a.C. esistessero delle maestranze greche integrate nel tessuto sociale locale.
Esempi analoghi a quelli scoperti nella necropoli cartaginese provengono da Sulcis (dove un vaso non ha forma né greca né tanto meno fenicia ma è decorato secondo il modello greco) e a Pitekussa . La conclusione più evidente che si può cogliere è quella di ipotizzare che in talune aree del Mediterraneo antico coesistessero due compagini etniche (greche e fenicie) che produssero realtà diverse tradotte concretamente nella colonizzazione greca dell'area cumana, mentre zone come Sulcis o Cartagine acquisirono ben presto un connotato specificatamente fenicio.
Argomenti trattati in questo servizio: storia tofet o tophet di Cartagine i sacrifici umani e la religione fenicia e punica |
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