L’edificio, scoperto negli anni 1982-83 da un’équipe guidata dall’università “La Sapienza” di Roma, prende nome dalla famiglia castelvetranese proprietaria di uno stabile in questa zona.
Il tempio (6,76 x 16,25 m), preceduto da un grande altare, è orientato est-ovest con una leggera inclinazione a sud ed è della tipologia ad oikos con lo spazio interno tripartito in pronao, naos e adyton; quest’ultimo, in particolare, ospita un altare ancora in situ. Sulla fronte orientale è stato individuato un portico di epoca punica rivelato dai blocchi di fondazione scoperti presso gli angoli N-E e S-E del tempio.
Le pareti del santuario si elevavano per cinque assise; l’ultima, che doveva ospitare il coronamento dell’edificio, presentava dei fori nella faccia interna dove si collocavano le travi per la copertura e nella faccia esterna un geison aggettante rispetto alle strutture sottostanti e in linea con la pendenza del tempio. I muri, rivestiti d’intonaco bianco nella parte interna, erano fatti con blocchi irregolari di arenite; ne conseguiva così una pianta dell’edificio non perfettamente rettangolare. Per quanto riguarda la cella rimangono ancora tracce della sua suddivisione interna, in particolare del muro che congiungeva il naos con l’adyton costruito in blocchi e coronato da stipiti. Al muro anzidetto, nella parte nord, è addossato un blocco che presenta, nella faccia superiore, quattro fori: si tratta con ogni probabilità di un altare di epoca punica. Un’altra struttura analoga, costituita da tre blocchi litici parallelepipedi, è collocata sul muro di fondo dell’adyton: anche questa presenta sulla faccia superiore tre fori quadrati. Le cavità presenti su entrambi gli altari servivano ad alloggiare delle stelai o dei betili aniconici davanti ai quali venivano offerte delle libagioni.
La costruzione del tempio è ascrivibile al VI sec. a.C.; tuttavia la presenza in questo luogo di materiale ceramico greco, databile alla fine del VII sec. a.C., può essere riferibile ad una frequentazione dell’area per fini cultuali ancor prima della costruzione del santuario. Questo dato è di fondamentale rilievo. È noto, infatti, che la collina occidentale fu sede di culti indigeni assimilati successivamente dai Greci; è possibile quindi che i primi contatti tra i i nuovi arrivati e gli indigeni si fossero sviluppati attorno a tale area. Comunque, questa zona dovette rivestire sempre una considerevole importanza per la città se si considera che in epoca punica essa era ancora utilizzata per fini cultuali.
L’ultima fase d’utilizzo del tempio è ascrivibile ad un periodo compreso tra la seconda metà del IV sec. a.C. e la prima metà del III sec. a.C.; successivamente venne riutilizzato come sepolcreto.
Fra i manufatti ritrovati durante lo scavo spiccano un coccio con su iscritto “ERA” in dialetto dorico e due statuette di kurotrophos. Alcuni studiosi sostengono che l’iscrizione possa essere riferibile alla divinità venerata nel tempio. Si tratterebbe, così come era successo per il culto di Zeus, di una geminazione religiosa dove a un culto di tipo olimpico ed importato dalla madrepatria se ne aggiungeva un altro di tipo locale ed influenzato dalla matrice indigena. Tuttavia le due statuette potrebbero offrire una nuova visione dell’intero complesso sacro; infatti le kurotrophos sono ascrivibili a divinità legate al culto della fertilità: stando a questa interpretazione il tempio, in relazione alla vicinanza col complesso monumentale della Malophoros, potrebbe essere connesso al culto di una divinità legata alla fecondità, forse quella Prasikrateia menzionata nell’iscrizione del tempio G.
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