Francesco Della Corte, ne «La mappa dell’Eneide», La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1972, a proposito della navigazione di Enea intorno alla Sicilia, così scrive: «Soffia un vento di nord. Fuggono allo sguardo le varie località: il Pantagia, il Golfo di Megara, Tapso, Ortigia, l’Eloro, il capo Pachino, Camarina, Gela, Agrigento, Selinunte e infine si giunge a Trapani. Questa rapidissima carrellata di città non è vista dal mare, come in una letteratura di peripli, ma tiene conto anche dell’interno: un lago a Camarina, un fiume a Gela, le mura di Agrigento, i cavalli che vi pascolano sotto, le palme di Selinunte».
In questa sede è proprio Camarina a focalizzare la nostra attenzione, con il suo lago che altri studiosi in modo più appropriato chiamano palude. Guido Vitali, in una delle sue note all’«Eneide» (Mursia, Milano 1981), si esprime nei seguenti termini: «Camarina, città del sud della Sicilia. Un oracolo aveva vietato che si bonificasse la palude che la circondava producendo miasmi. Gli abitanti prosciugarono egualmente la palude, e ne furono puniti, giacché sul suolo asciutto passarono agevolmente i nemici che distrussero la città».
Ma che cosa aveva detto precisamente Virgilio? Nei versi 700-701 del terzo libro si legge: «... et fatis numquam concessa moveri / adparet Camarina procul ...»
Nel «Dizionario mitologico» del Declaustre, tradotto dal francese e stampato a Napoli nel 1834, si afferma che «Camarina, palude della Sicilia, esalava vapori infetti. I Siciliani consultarono l’oracolo di Apollo per sapere se dovevano asciugarla: l’oracolo ne li dissuase. Essi però non ebbero riguardo a questa risposta, e facilitarono così l’entrata nell’isola ai loro nemici che saccheggiarono il paese. Da qui venne il proverbio: “Camarinam ne moveris”».
Ma qual è l’evento cui ci si riferisce?
Camarina, colonia greca fondata dai sicelioti di Siracusa presso la foce del fiume Ippari nel 598 a. C. a sud-ovest dell’odierna Vittoria in provincia di Ragusa, viene ripetutamente rasa al suolo. Le prime due volte ad opera degli stessi Siracusani che, per castigare la sua sete di indipendenza, la riducono ad un ammasso di rovine. Il prosciugamento della palude narrato da Virgilio andrebbe forse collocato, con ogni verosimiglianza, in data antecedente alla prima devastazione della città, avvenuta nel 553 a. C. Ma, approfittando della guerra condotta contro Siracusa e Agrigento dal siculo Ducezio, Camarina risorge nel 461 a. C. all’antica magnificenza, vivendo successivamente le pagine più gloriose della sua storia.
È in questa fase di prospera pace che fioriscono a Camarina lo sport e la cultura, secondo la migliore tradizione greca. Pindaro, nella IV Ode Olimpica, canta la splendida vittoria di un atleta camarinese di nome Psammide, trionfatore col carro tirato da mule nella 82a Olimpiade.
Come scrive Bruno Gentili nell’Introduzione al volume «Pindaro - Le Pitiche» (Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995), «vivida è l’immagine della città e delle sue case alte a vedersi e folte come una selva e del sacro, benefico fiume che la irriga a nord-ovest, l’Ippari, fertile di limo che feconda la terra circostante e serve anche a cementare come materiale coesivo la moltitudine delle nuove dimore, che il poeta indica non a caso come talami, quasi anticipando l’augurio di prolificità rivolto poco dopo a Psammide per aver contribuito con la sua vittoria alla rinascita di Camarina». Ne riportiamo alcuni versi nella traduzione italiana dello stesso Bruno Gentili: «Tornato dalle sedi / amabili d’Enomao / e di Pelope, o Pallade / che reggi la città / egli (Psammide) canta il tuo bosco venerando / e le correnti dell’Onao / e il lago natio / e i sacri canali dell’Ippari / che irrora la tua gente / e rapido cementa / la selva d’alte membra / delle salde dimore nuziali, / traendo da miseria questo popolo / di cittadini alla luce». Il parallelismo Psammide-Ippari, annota l’Autore, enfatizza il ruolo del vincitore perché anch’egli, al pari del fiume, fa risorgere la città a nuova vita.
Ma la raggiunta felicità degli abitanti non sarà purtroppo di lunga durata rivelandosi presto effimera nella turbolenza delle vicende siciliane in quei secoli di grandi conquiste civili e sociali ma anche di inenarrabili calamità e sofferenze. Camarina andrà incontro, con la complicità di Cartagine, ad ulteriori distruzioni, alla deportazione delle sue donne e dei suoi bambini. Fino a quando, nel 258 a. C., il console romano Attilio Calatino, con incendi, stragi e saccheggi di bestiale e inaudita ferocia, non cancellerà per sempre la memoria di Camarina. Ma essa tuttavia, immortalata dalla divina poesia di Pindaro, è tornata, malgrado tutto, a rifulgere di vivida luce, emergendo dal silenzio del tempo grazie all’ammirevole impegno profuso da emeriti archeologi come Paolo Orsi, Biagio Pace, Paola Pelagatti, Giovanni Di Stefano, Antonino Di Vita.
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