La possibilità di rappresentare uno spazio tridimensionale attraverso una superficie pittorica bidimensionale ha sempre affascinato gli artisti di ogni epoca, raggiungendo com'è noto il suo apice nel Rinascimento con l'invenzione della prospettiva centrale rispondente a precise leggi scientifico-matematiche. Tuttavia già negli affreschi romani, specie nella descrizione di paesaggi e nelle decorazioni architettoniche, viene rappresentata la profondità spaziale. Per capire come i pittori romani siano giunti a raffigurarla senza conoscere la prospettiva centrale bisogna fare un passo indietro e risalire alle correzioni ottiche dei templi greci.
La percezione visiva del tempio greco è infatti il risultato di una serie di accorgimenti, come ad esempio la lieve inclinazione delle colonne e della trabeazione verso l'interno, per evitare l'impressione visiva di caduta, o l'entasi, il rigonfiamento della colonna a circa due terzi d'altezza per sottrarsi alla deformazione prospettica. Gli antichi teorici dell'arte e ottici greci conoscevano la deformazione sferica delle cose viste (perché proiezione sulla sfera oculare): di conseguenza la grandezza degli oggetti non deriva dalla distanza di questi dagli occhi, ma dall'ampiezza dell'angolo visivo. Da siffatto principio scaturisce il procedimento geometrico-prospettico adottato dai pittori dell'antichità classica, basato non su una proiezione sul piano, ma su una proiezione sulla superficie sferica. Nei suoi Dieci libri sull'architettura Vitruvio parla in effetti della rappresentazione prospettica di un'immagine tridimensionale su un piano bidimensionale, definendola Scenographia, la quale ha per fondamento un “punto di vista” definito “omnium linearum ad circini centrum responsus”. In effetti questo circini centrum, che potremmo tradurre impropriamente come centro del cerchio, non può essere identificato con il punto di vista della prospettiva moderna, che non fa riferimento al cerchio bensì al piano, ma piuttosto lascia pensare a un centro di proiezione, che potremmo identificare con l'occhio dell'osservatore (da cui “circini”). Immaginiamo dunque che questo centro di proiezione nei disegni preliminari intersechi i raggi visivi: eseguendo la costruzione con un tale “cerchio di proiezione” si giunge ad un risultato che richiama i dipinti dell'antichità classica, in cui le linee di profondità non concorrono, come nella prospettiva centrale, in un punto, bensì sembrano concorrere in un asse, cosicché si ha l'impressione di uno schema prospettico a “lisca di pesce”, dove i prolungamenti delle linee di profondità concorrono a due a due a questo “asse di fuga”. Tale tesi della rappresentazione prospettica indicata da Vitruvio è difficilmente dimostrabile, perché le pitture di quel periodo pervenute fino a noi sono tutt'altro che rigorose nella costruzione dello spazio, ferma restando la validità del principio dell'asse di fuga nella costruzione di un tracciato di linee oblique e più o meno parallele di profondità. E' da sottolineare però che nella prospettiva moderna basata sul punto di fuga tutte le grandezze degli oggetti rappresentati sono proporzionalmente modificate a seconda della loro distanza dall'occhio dell'osservatore, cosa che invece non avviene con lo schema a “lisca di pesce”: se infatti si vuole rappresentare una superficie a scacchiera utilizzando questo schema, i riquadri centrali saranno troppo piccoli o troppo grandi rispetto a quelli vicini, difficoltà che i pittori antichi superavano introducendo una foglia di fico, una ghirlanda o piccoli festoni in primo piano per nascondere il difetto prospettico. Anche se imperfetto da un punto di vista scientifico-matematico questo metodo di rappresentazione prospettica dello spazio, largamente usato dai pittori dell'antica Roma, conserva ancora oggi tutto il suo fascino grazie al senso di mistero che avvolge la sua origine.