Polifemo, famosissimo Ciclope con un solo occhio in mezzo alla fronte, era figlio della ninfa Toosa e di Poseidone (dai latini chiamato Nettuno), fratello di Zeus (Giove), re dell’Olimpo.
Come scrive Luigia Achillea Stella, in “Mitologia Greca” (Torino 1956), i figli terreni del dio del mare non sono eroi né uomini, ma primitive creature selvagge di smisurata forza fisica e di inaudita violenza e ferocia bestiale, che vivono, per usar termini dell’Odissea, fuori dalle leggi divine e non conoscono giustizia. Implacabili nemici degli uomini, omicidi e a volte cannibali, dimorano in remote contrade in riva al mare, assaltando i forestieri.
Il più famoso dei selvaggi figli giganti di Poseidone è senza dubbio il ciclope Polifemo. Secondo la tradizione mitica documentata dall’Odissea, Polifemo è un essere immane e selvaggio che abita entro una grotta, uccidendo e divorando i malcapitati stranieri che giungono ignari a quelle rive. Quando Ulisse (in greco, Odisseo) sbarca in Sicilia nei pressi dell’Etna e, ignaro del pericolo, penetra nella spelonca con dodici compagni, si trova ad assistere al rientro del Ciclope e del suo gregge, che facevano ritorno dal pascolo. Polifemo, che colloca un macigno davanti all’ingresso, respinge le preghiere di Ulisse e non intende tenere conto delle sacre leggi dell’ospitalità, e comincia perciò a far strage dei Greci, cibandosi delle carni dei primi due infelici che ghermisce e stritola contro una parete. Quando si sveglia la mattina successiva, il gigante fa colazione mangiando altri due compagni di Ulisse e quindi esce per condurre al pascolo le pecore, avendo avuto stavolta cura di ostruire adeguatamente l’ingresso, allo scopo di rendere impraticabile la fuga ai malcapitati suoi prigionieri.
Ulisse assieme agli otto superstiti escogita però uno stratagemma: fare ubriacare Polifemo con un otre di vino rosso che aveva portato con sé ed accecarlo durante il sonno con un palo aguzzo ed infocato.
Quando il Ciclope, svegliatosi per il dolore, si mette ad urlare chiedendo soccorso agli altri Ciclopi che abitano nelle caverne vicine, alla domanda rivoltagli da lontano se mai c’era qualcuno che gli stesse facendo del male, egli risponde “Nessuno”, perché così in previsione di quanto sarebbe accaduto gli aveva detto di chiamarsi Ulisse, traendo il carceriere in un astuto inganno.
Al far del giorno, approfittando della cecità di Polifemo, Ulisse e i suoi, attaccandosi sotto il ventre dei montoni, lasciano finalmente la grotta e si avviano precipitosamente verso le navi per fuggire da quel luogo maledetto.
L’episodio è raccontato dai due maggiori poeti epici dell’antichità, il greco Omero e il latino Virgilio. Entrambi con arte impareggiabile ci fanno rivivere quelle due terribili giornate trascorse da Ulisse al suo approdo in Sicilia, ma Enea vi giunge tre mesi dopo quando l’uccisione dei compagni di Ulisse è ormai un fatto compiuto. Il racconto virgiliano, affidato al greco Achemenide che, dimenticato da Ulisse nella spelonca di Polifemo al momento della fuga, era sopravvissuto nei boschi etnei, cibandosi di erbe selvatiche e di radici, rappresenta quindi soltanto un riepilogo e, in certo modo, un concitato commento postumo agli avvenimenti riferiti dall’Odissea.
Dalla splendida versione dell’Eneide, che l’insuperato umanista di Calatafimi Francesco Vivona, ordinario di Letteratura Latina alla “Sapienza” di Roma, completò e pubblicò nel 1926, in uso fino a pochi anni addietro in tutte le scuole italiane, la bella fedele che dalla critica è stata positivamente messa a confronto con la bella infedele di Annibal Caro, riportiamo i versi 963-1002: Achemenide «avea ciò detto appena / ch’esso, il pastore Polifemo, in mezzo / del suo gregge vediamo dalla cima / calar del monte verso i noti lidi, / mostro orrendo, diverso, gigantesco, / privo dell’occhio. Un tronco pino i passi / guida e sostiene; le lanose agnelle / lo accompagnano, solo godimento, / solo conforto dei suoi mali. Quando, / camminando, raggiunse il mar profondo, / indi lavossi della cava occhiaia / il marciume sanguigno, digrignando / i denti e urlando, e si avanzò nell’alto, ! né l’onda ancora i fianchi ardui tingea. / Allora noi, raccolto il così degno / supplice, ci affrettiamo trepidanti / a fuggire lontano ed a tagliare, / senza far motto, la rudente e a gara / solchiam proni sui remi il mare ondoso. / C’intese, e al suono della voce i passi / torse; ma poi che nullo di afferrarci / poter gli è dato con la man, né vale ! del grande Ionio ad eguagliare i flutti / seguendoci, alza un grido smisurato, / che palpitar fe’ tutte l’acque e in fondo / tremar l’itale prode e i curvi spechi / muggir dell’Etna. Allora la famiglia / dei Ciclopi, sbucando dalle selve / e dai monti, con grande impeto irrompe / alla marina, e n’è gremito il lido. / Vediamo ritti con il torvo invano / occhio gli etnei fratelli e con le teste / insino al ciel, convegno spaventoso; / come talora sovra eccelso giogo, / alta selva di Giove, aerie querce / sorgono o, sacro bosco di Diana, / coniferi cipressi. Un gran terrore / allor ci spinge a scioglier del cordame / in fretta i nodi, e a seconda del vento / ovunque ne trasporti, issiam le vele».
I versi sopra riportati sono tratti dall’edizione curata nel 1995 dall’Associazione Nazionale “’Ludi di Enea” con introduzione di Ettore Paratore, il maggiore latinista allora vivente, presidente mondiale nel 1981 delle celebrazioni per il bimillenario della morte di Virgilio.
Tornando ai Ciclopi, occorre comunque chiarire, pur se forse non ce sarebbe il bisogno, che si tratta soltanto di una leggenda. Fu il ritrovamento in grotte della Sicilia di resti fossili di elefante nano, il cui teschio presenta un grosso foro nel punto della fronte dove si innestava la proboscide, ad ingenerare l’equivoco. Ecco anche perché alcuni hanno erroneamente creduto di localizzare la presenza dei Ciclopi nei dintorni del trapanese, dove hanno avuto luogo, come nelle caverne dell’Etna, analoghi rinvenimenti. Polifemo e la sua leggenda hanno in realtà una loro sede esclusiva, quella etnea, che è stata giustamente privilegiata e consacrata dalle opere immortali dei due insigni poeti dell’antichità.
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