Storia degli scavi a Mozia (I parte)
di Benedict S. J. Isserlin |
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![]() Ma c’è ancora un altro collegamento con la Libia. La mia partecipazione agli scavi della professoressa Kenyon mi spinse verso l’archeologia fenicio-punica, e fu in tale contesto che mi sono interessato sempre più all’antica città di Mozia. L’impresa del Whitaker in particolare era stata notevolissima, ma era pure chiaro che, malgrado la sua grande opera, molto restava da fare. Era forse possibile rinnovare gli scavi? Decisi di approfondire la questione, tanto in Italia quanto in Inghilterra. Sembrò che in entrambe si potessero trovare aiuti. In Italia ebbi modo di far visita alla famiglia del defunto commendatore Giuseppe Whitaker: l’anziana signora Tina e le due figlie erano molto interessate alla prospettiva di riprendere gli scavi a Mozia, e la signorina Delia in particolare mi diede il suo prezioso sostegno. In Inghilterra due illustri professori di Oxford, D. B. Harden e T. J. Dunbabin, appoggiarono il progetto e nell’anno 1955 una piccola spedizione oxoniense (di cui ero a capo) fu mandata nell’isola, allo scopo di esaminare il terreno e di decidere se valesse la pena di iniziare nuovi scavi con i moderni metodi della professoressa Kenyon. In quella prima operazione preliminare avemmo l’opportunità di eseguire saggi in vari punti scelti dell’isola: e ci sembrò che con scavi sostanziali, di maggiore portata, si sarebbero potuti conseguire risultati di grande valore storico-archeologico. Ciò nonostante, furono necessari vari anni fino a che un progetto concreto si poté intraprendere grazie alla missione congiunta dell’Università di Leeds e dell’Istituto di Archeologia di Londra, sotto la comune direzione mia personale e della professoressa Plat Taylor dell’Università di Londra, e con la proficua collaborazione di un gruppo di noti esperti di varie discipline. La presenza della signorina Taylor risultò utilissima alle nostre indagini, grazie alla sua perizia archeologica; era un piacere lavorare con lei o affidare talvolta alle sue mani esperte la direzione di certi lavori. Né posso dimenticare la cooperazione e l’aiuto prestatici dalle autorità archeologiche della Soprintendenza di Palermo, e dai colleghi italiani della missione di Roma. Più tardi si unirono a noi l’Università di Fairleign Dickinson del New Jersey (Stati Uniti) ed il Dipartimento di Studi Semitici dell’Università di Sydney (Australia): per alcuni anni il nostro gruppo divenne internazionale, con partecipanti britannici, americani, italiani, dal Medio Oriente, dall’Australia e da altre Nazioni. Per molti di loro il soggiorno in questo ambiente siciliano tradizionale era un’avventura. ![]() Generalmente si stava bene sull’isola; solo la calura dell’estate siciliana qualche volta era difficile da sopportare sul cantiere di scavo, persino per gli operai abituati a quel clima: in ogni caso, a mezzogiorno si faceva una pausa. I nostri operai facevano sempre tutto il possibile; era un piacere lavorare con loro e, malgrado qualche difficoltà con la lingua, ci capivamo abbastanza bene reciprocamente. Giacché dovevo visitare ogni settore di scavo diverse volte al giorno, avevo pure l’occasione di fare la loro conoscenza: li trovai cortesi ed intelligenti. Questi viaggi di ispezione li facevo con una vecchia bicicletta (detta “la bicicletta del professore”): un veicolo eccellente, mancavano solamente i freni. Quanto ai lavori, trovammo presto che per scavi le condizioni nell’isola erano eccellenti: pure stratificazioni complicate potevano essere analizzate chiaramente. In addizione, facemmo uso d’altri metodi: della fotografia aerea (vuol dire, dove i vigneti e i pineti non impedivano la vista); e delle indicazioni geofisiche in quel tempo per analisi di resistività (vuol dire, la registrazione e lo studio delle variazioni subite da una corrente elettrica nella terra entro due elettrodi se essa incontra qualche ostacolo come un muro nascosto). Con tali tecniche, è possibile talvolta distinguere probabili segni della presenza di ruderi, e studiare zone più estensive. Ma che dovevamo o che potevamo indagare in quest’isola così grande? - Si pensi che per fare il giro a piedi erano necessari almeno 40 minuti. E non solo l’isola stessa era da studiare, ma pure la terraferma antistante e il collegamento tra le due e con il più lontano mondo mediterraneo. Dovendo operare una scelta, si è dovuto tralasciare lo studio della terraferma vicina a Mozia, ma riteniamo di aver raccolto un buon numero di informazioni riguardo a vari aspetti della civiltà moziese. [fai click qui per leggere il seguito] ![]()
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