Nell’arcipelago delle Egadi l’isola di Favignana, con il suo stabilimento per la lavorazione del tonno, vanta uno dei più imponenti esempi di archeologia industriale in Sicilia.
Commissionato nel 1874 da Ignazio Florio, proprietario della tonnara, e costruito su progetto dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda (ricordato anche per la realizzazione del Teatro Politeama di Palermo), lo stabilimento vantava già quattro anni dopo la sua inaugurazione la cattura di oltre diecimila tonni per la lavorazione dei quali furono impiegate fino a mille persone.
Una volta pescati dai tonnaroti sotto la guida del rais (parola di origine araba da rais = capo), con il secolare rituale della mattanza (dal latino mactare = uccidere), i tonni venivano portati all’interno della tonnara. Lì venivano appesi nel bosco (insieme di cime per agganciare e far scolare i tonni), tagliati, sventrati, eviscerati, privati delle uova che erano lavorate nella camparia, bolliti, messi in salamoia o immersi nell’olio di oliva e infine confezionati nelle tipiche scatolette rosso-gialle contrassegnate dall’immagine del leone dei Florio che si abbevera alla riva di un ruscello.
La storia della Sicilia si lega all’antico rituale della pesca del tonno, il grande pesce d’argento dipinto sul cratere siceliota del IV secolo a.C. e acquistato a Lipari dal barone Mandralisca, inciso sulle monete di bronzo coniate nel III secolo a.c. dalla punica Solunto, raffigurato in un verso del II secolo a.C. custodito presso il museo di Cefalù.
La pesca del tonno fu descritta per la prima volta da Aristofane, da Oppiano e dal siracusano Teocrito.
Aristofane racconta che una vedetta si appostava sul rilievo costiero più alto per segnalare l’arrivo dei tonni, i quali venivano spinti dalle correnti marine all’interno di un intrigo di reti.
Dagli scritti di Strabone veniamo a conoscenza che i Fenici, abili pescatori, si spinsero oltre le colonne d’ Ercole alla ricerca dei branchi di tonni, e che questi venivano poi lavorati a Cadice, luogo in cui sono state trovate monete raffiguranti questo pesce.
Anche le dominazioni successive praticarono in Sicilia la pesca del tonno: i Romani, se la pesca era stata buona, sacrificavano i tonni più grossi in onore del dio dei mari Nettuno; gli Arabi edificarono nuove tonnare lungo le coste e ad essi dobbiamo l’organizzazione e l’infallibile funzionalità delle nostre tonnare e l’etimologia di tutte le parole e i canti scanditi durante la mattanza. I Normanni le resero sempre più floride.
Dalla dominazione normanna in poi l’esercizio della tonnara passò in mano al regio demanio come quello della casa regnante iberica: i privati potevano accedervi soltanto se ottenevano, naturalmente pagando il relativo tributo, una autorizzazione che veniva concessa dal sovrano.
Così accadde per tutto il Cinquecento, e alla fine del secolo delle trentacinque tonnare esistenti sull’Isola soltanto dieci rimasero al demanio mentre le altre passarono ai privati.
La tonnara di Favignana e quella della vicina isoletta di Formica furono vendute nel 1637 al genovese Camillo Pallavicino per l’ingente somma di 62 mila onze.
Nella seconda metà del Seicento il numero degli impianti siciliani raddoppiò, ma nel Settecento diminuì nuovamente (l’opuscolo del marchese di Villabianca, autore dei Diari di Palermo, redatto verso la fine del Settecento, costituisce senza dubbio una fondamentale fonte di notizie sulla storia delle tonnare dell’epoca). Una ripresa si verificò all’inizio dell’Ottocento quando le tonnare nel loro complesso rendevano un milione di lire all’anno.
Per tutto l’Ottocento e i primi anni del Novecento la lavorazione del tonno si svolse a pieno ritmo, ma negli ultimi tempi nelle camere della morte è affluito un numero sempre minore di tonni nonostante le bellissime cialome, antichissimi canti propiziatori che accompagnano il faticoso lavoro dei tonnaroti durante la mattanza. La tonnara di Favignana fu pertanto chiusa e lasciata in abbandono.
Ma un progetto della Fiat Engineering con il decisivo apporto dell’Assessorato dei Beni Culturali della Regione Siciliana ne ha reso possibile l’esproprio, sottraendo il vetusto stabilimento all’inesorabile disfacimento, recuperandone i locali e destinandoli ad un museo all’interno del quale è oggi possibile seguire un percorso archeologico industriale e conoscere l’attività dei vecchi opifici.
Di straordinario interesse il volume di Elisabetta Guggino e Gaetano Pagano, dal titolo La mattanza, pubblicato nel 1977 a Palermo ed oggi ritenuto, con la sua bella copertina a colori, una autentica rarità libraria. Guggino e Pagano (entrambi docenti nell’Università di Palermo) spiegano tecnicamente ed illustrano con disegni e fotografie le varie fasi della pesca del tonno nell’isola di Favignana. A completamento dell’opera, un preziosissimo glossario della mattanza, davvero unico nel suo genere.
Le suggestive immagini in bianco-nero, gli antichi barconi e le ancore arrugginite non prenderanno mai più il mare, ma contribuiranno a guidare i visitatori sulle rotte di un ricordo storico e folkloristico che ci appartiene.
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