Il matrimonio nell'antica Roma

di Ranieri Barghigiani
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Il matrimonio romano: scena di sacrificio nuzialeLa scienza archeologica, oltre al recupero e alla conservazione di oggetti, cimeli ed altre testimonianze riconducibili ad antiche civiltà del passato, ha in sé un altro indiscutibile merito: quello di contribuire ad informare su diversi aspetti della vita di un popolo, le cui vicende sono conosciute ai più a seguito dello studio, talvolta freddo e noioso, di rigorosissimi testi scolastici.
Ad una più dettagliata conoscenza del passato contribuisce perciò l’archeologia, per cogliere diverse sfumature, anche le più sottili e variegate, riconducibili ad un dato contesto sociale, alla capacità organizzativa raggiunta da quelle genti che hanno concorso a determinare il percorso storico dell’intera umanità.
Testimonianze vive che, nel loro splendore e nella loro semplicità, permettono a tutti noi di aprire una finestra sul passato.
Tra i numerosi reperti rinvenuti, maggiormente hanno attratto l’attenzione dei studiosi quelli di epoca romana. In molti di essi, troviamo la raffigurazione di scene riferibili a contesti di vita domestica e coniugale. Quale, dunque, l’importanza che i Romani riconoscevano al matrimonio ed ai suoi effetti, ma, soprattutto, quali e quante le differenze con il modo di concepire oggi, culturalmente e giuridicamente, il medesimo istituto?
Appare complicato rispondere in poche righe alle domande che precedono, giacché il matrimonium, dalla fondazione dell’Urbe, nel 753 a.C., alla fine dell’impero d’Occidente, ha subìto dei mutamenti che ne hanno in parte modificato l’originaria struttura pur nel rispetto di taluni principî rimasti invariati nel corso dei secoli. Ciò, come ovvio, è del resto da leggersi nell’ottica di una naturale evoluzione dell’istituto preso in considerazione.
Un dato è certo: esso si reggeva, prima ed a prescindere da qualsiasi rito di celebrazione o atto formalmente inteso, sull’affectio maritalis riferibile ad un contesto di convivenza tra due persone diverse nel sesso.
Era, dunque, l’affectio maritalis l’elemento consensuale di per sé caratterizzante il matrimonium e si traduceva nell’intenzione reciproca di un uomo e di una donna, raggiunta l’età pubere (12° anno di età per le femmine; 14° per i maschi), di dar luogo ad una comunione di vita retta da ben precise regole. Nota è la definizione del giurista Modestino (III sec. d.C.) per il quale "nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae divini et umani iuris communicatio" (D. 23,2,1).
Il matrimonio romano: la pronuba con i due sposiAltro elemento di particolare importanza era la convivenza tra i due soggetti ma, occorre ribadirlo ancora una volta, era proprio la sussistenza dell’affectio maritalis che consentiva, di caso in caso, di distinguere la giusta unione coniugale da un semplice rapporto di concubinato.
Non era consentito agli schiavi di contrarre matrimonio e le loro unioni erano definite contubernium. Costoro, infatti, erano carenti di ius connubii, proprio invece dei cittadini romani. In seguito tale diritto venne esteso anche ai plebei per il tramite di una lex Canuleia (445 a.C.), ma mai agli schiavi.
Oltre al consenso degli sposi era necessario acquisire anche quello del pater familias o dei patres familias, se sottoposti, uno dei due nubendi o entrambi, alla relativa potestas.
Non potevano contrarre matrimonio i furiosi, gli insani di mente cioè, giacché carenti della richiesta capacità.
Ulteriore impedimento riguardava chi era legato ad altra persona da un preesistente vincolo matrimoniale, dato il carattere monogamico di quest’ultimo.
Era, inoltre, impossibilitata al matrimonio la vedova prima del compimento di dieci mesi dalla morte del marito.
Non potevano, poi, unirsi in iustae nuptiae i parenti in linea retta all’infinito. Per quanto riguarda i collaterali, vigeva il divieto tra fratello e sorella, mentre dal tempo di Claudio, imperatore dal 41 al 54 d.C., vennero considerate lecite le nozze tra zio e nipote, avendo questo imperatore sposato la nipote Agrippina.
In epoca remota, i Romani erano soliti celebrare il matrimonium nella forma detta cum manu che, a seguito del compimento della conferratio -antico rito religioso- o della coemptio -negozio solenne simulante una sorta di compravendita della sposa- o ancora dell’usus determinava, per grandi linee, la definitiva uscita della donna dal proprio nucleo familiare ed l’ingresso della stessa in quello del marito.
In età classica, invece, più frequenti furono i matrimoni sine manu, per effetto della qual forma il marito non acquistava alcuna potestas sulla moglie, la quale peraltro, se soggetta al vincolo del proprio pater familias, continuava a mantenere, anche dopo le nozze, il predetto status di sottoposta.
È curioso sapere che il matrimonio determinava l’obbligo della fedeltà solo per la donna, la cui eventuale relazione adulterina costituiva vero e proprio delitto, il crimen adulterii. Non così per il marito.
In capo ad entrambi i coniugi e reciprocamente gravava l’obbligo agli alimenti, mentre erano vietate le donazioni vicendevoli.
Il decesso di uno degli sposi era causa di scioglimento delle nozze. Ma non solo: esse si scioglievano, come è naturale supporlo, per il venir meno dell’affectio maritalis -ed era ciò motivo di divorzio tra le parti- o se uno dei coniugi, in seguito ad eventi bellici o per diversa causa, diveniva schiavo. Molti matrimoni cessavano anche a seguito di repudium da parte del marito.
È bene ricordare che, in epoca postclassica e grazie all’influenza del Cristianesimo, l’istituto del matrimonio subì dei mutamenti nei suoi caratteri essenziali. Così, se l’affectio maritalis cedette progressivamente il posto all’iniziale consenso degli sposi, si fece, al contempo, sempre più strada l’idea del carattere sacramentale del vincolo, tanto che -dal tempo di Giustiniano- la benedizione sacerdotale, impartita ai nubendi, divenne criterio dal quale poter desumere la sussistenza dell’affectio nella coppia.
Sempre in aderenza alla concezione cristiana del matrimonio -considerato per sua natura indissolubile- il citato imperatore sanzionò i divorzi senza giusta causa con le stesse pene già in precedenza stabilite per i ripudi effettuati senza alcun reale motivo. Si richiese poi, per la validità del divorzio, la presenza di sette testimoni, e ciò per dare maggior certezza giuridica alla realtà familiare.
Di certo, mille altre curiosità può suscitare l’argomento trattato. Si potrebbe così indagare sui rapporti patrimoniali tra i coniugi, sulle disposizioni in materia di successione, sull’antichissimo istituto della dote, sulla considerazione della donna nella società romana. Ma questa, come è ben chiaro a tutti, è un’altra storia.



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