Eureka. Ho trovato! Questo il motto di Archimede, inventore ed ingegnere, conosciuto probabilmente dai giovani più per il fumetto disneiano che per il suo ruolo nella storia della cultura e del progresso umano. Dall’antichità al Rinascimento è spesso rappresentato pure in alcune opere d’arte. In un mosaico, trovato durante gli scavi di Ercolano, è raffigurato mentre viene ucciso da un soldato: la leggenda vuole che quest’ultimo intendeva condurlo dal console Marcello, ma che Archimede, assorto in un calcolo, non gli aveva dato ascolto, suscitando la sua inconsulta reazione.
In un affresco a Pompei è rappresentata la sua vite idraulica, oggi elica per la navigazione marittima e aerea. Nel quadro di Raffaello, «La scuola di Atene», il matematico siracusano è presente nell’atto in cui, con il compasso, dà una dimostrazione geometrica. Nel 1574 a Norimberga è effigiato nel bagno mentre scopre la spinta dell’acqua sui corpi immersi. Pare che uscisse dal bagno dimenticando di vestirsi e corse fuori con il famoso Eureka (l’aneddoto ci è tramandato da Vitruvio). Molti credevano che Archimede fosse soltanto un pazzo, ma il buon re di Siracusa, Gerone, gli aveva dato la sua corona con l’incarico di svelare, senza guastare il prezioso manufatto, se l’orafo avesse commesso frode mescolando l’argento all’oro di cui chiedeva il prezzo. Archimede, mentre era immerso nell’acqua, osservò come più facilmente poteva sollevare le gambe grazie alla spinta avvertita dal basso verso l’alto: un’intuizione felice che venne così da lui tradotta in termini fisici: «Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto uguale al peso del fluido spostato». Riuscì quindi con siffatto metodo a determinare la densità di alcuni lingotti d’oro e d’argento e smascherò la frode della corona; l’orafo, di conseguenza, venne destituito dal suo incarico!
Archimede fu il primo ad applicare il metodo scientifico positivo: l’esperienza ed il calcolo; ripudiò le superstizioni e gli errori delle false scienze del proprio tempo che ammettevano l’esistenza di forze occulte all’origine di fenomeni naturali. Tito Livio ci parla di lui, contemplatore del cielo e delle stelle, sottolineando la sua abilità quale inventore di macchine da guerra. Era stata fabbricata una grandiosa nave per il trasporto, che il sovrano di Siracusa donò al re Tolomeo in Alessandria, poiché in Egitto c’era penuria di frumento e l’imbarcazione, incredibilmente ampia, riusciva ad entrare solo in quel porto. Seduto sulla spiaggia, il fisico siracusano impartiva lezioni di ingegneria nautica, mentre dirigeva le operazioni per il varo di questo bastimento a tre alberi, che fece scendere in mare attraverso lo scorrimento di una corda e mediante l’uso di pulegge da lui stesso inventate.
«Là dove infatti tutti i Siracusani insieme non potevano per nulla muoverla, Archimede fece sì che Gerone da solo potesse trarla in mare: cum enim omnes una Syracusii navem illam protrahere minime possent, Archimedes Hieronem solum ipsam subduxisse fecit» (Proclo Licio). Gerone, meravigliato dell’opera, volle Archimede con sé, affinché costruisse per lui macchine da guerra sia per la difesa che per l’attacco. Nel periodo del suo regno tali macchine non furono mai adoperate per la “perfetta pace” che il re era riuscito a stabilire.
Dopo cinquanta anni di armonia con la Repubblica Romana, Gerone morì lasciando il trono al nipote Geronimo il quale, non seguendo l’esempio del predecessore, si alleò con Cartagine e quindi con Annibale che finalmente riuscì a colpire Roma al “cuore”. Siffatta alleanza fu il motivo dell’assedio che portò all’uccisione del nuovo re, ma non tornò l’amicizia con Roma.
Nel 540 comincia l’assedio romano, sotto il comando del console Marcello e di Appio Claudio. Siracusa sarebbe subito caduta se un solo uomo non avesse fermato l’offensiva dell’esercito invasore. Marcello circondò la città siceliota per mare con 60 galere, Appio attaccava da terra. In cinque giorni i due comandanti contavano, come ci tramanda Polibio, di portare a termine i loro piani. Oltre che di saette, di fionde e di balestre, essi erano provvisti della sambuca: piantate sopra otto galere si trovavano quattro alte colonne, sulla cui cima c’era un tavolato che da un lato aveva una scala per far salire i soldati e dall’altro consentiva loro di scendere sulle mura. Balestre, saette assai più tese ferivano i romani che da lontano osavano appressarsi.
Con le sue diavolerie Archimede riuscì a diffondere un superstizioso terrore nel nemico. I soldati romani, così, tentarono la notte di cogliere di sorpresa gli assediati, ma dalle fessure delle mura, ad altezza d’uomo dentro e grandi come un palmo fuori, gli arcieri investivano il nemico con miriadi di frecce. Quando i Romani cercavano di agganciare le sambuche, dalle mura emergevano nuove armi, che si estendevano molto al di fuori dei bastioni e lanciavano massi e sfere di piombo dal peso minimo di dieci libbre: le punte erano orientate da uno speciale congegno e per mezzo di una carrucola scaricavano il macigno ad una velocità che aumentava la sua potenza distruttiva, annientando navi ed armi annesse.
Dalle mura, inoltre, Archimede faceva calare robuste catene provviste di uncini, le cosiddette “mani di ferro” che, pilotate da dentro, arpionavano la prora della nave e, mentre nella città un manico si abbassava, la nave fuori si alzava sulla poppa, poi di botto la catena veniva lasciata libera e la nave cadeva in acqua rovesciandosi.
I Romani fuggivano, ormai, appena vedevano funi e travi uscire dalle mura! L’industrioso Archimede utilizzava inoltre i celeberrimi specchi ustorii di sua invenzione che egli orientava sulle navi nemiche, facendovi concentrare i raggi solari per incendiarle: lo raccontano Plutarco, Tito Livio e Polibio.
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