La parola degli antichi scrittori greci giunge da tempi lontanissimi a illuminare, tra mito, religiosità e storia, una parte consistente del nostro passato: occorre dunque rileggere alcune pagine degli storici del V, II e I secolo a. C. per attingere notizie circa le vicende di Mozia, la città-fortezza un tempo situata su un isolotto dello Stagnone a pochi chilometri da Capo Lilibeo e rimasta disabitata dalla distruzione avvenuta nel 397 a.C. per opera del tiranno di Siracusa Dionisio I.
Anche nel caso di questo piccolo fazzoletto di terra, per conoscere la civiltà e gli avvenimenti che lo hanno caratterizzato, può rivelarsi utile interrogare i testi, a noi pervenuti, degli storici antichi, la cui testimonianza scritta, ampia o breve che sia, costituisce un valido supporto ai già di per sé eloquenti reperti archeologici. In questo senso vengono in nostro soccorso le affermazioni di Tucidide, autore greco del V sec. a.C., il quale, a proposito della spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a. C.), ci informa sulle popolazioni che alcuni secoli prima l’avevano occupata: Sicani, Siculi, Elimi, Fenici. Questi ultimi, noti come popolo di attivissimi mercanti presenti nell’Egeo già dal secondo millennio a.C., si erano spinti nel Mediterraneo occidentale, e la Sicilia dovette senz’altro essere una delle loro mete. Infatti, secondo lo scrittore “abitavano la Sicilia tutto intorno, dopo avere occupato i promontori sul mare e le isolette prossime alla costa per commerciare con i Siculi” (Tucidide, VI 2, 6).
Successivamente, intorno all’VIII-VII sec. a C., i Greci cominciarono a giungere numerosi dal mare per colonizzare la Sicilia, sicché, come dice testualmente Tucidide, i Fenici “dopo avere lasciato la maggior parte delle loro sedi, insieme andavano ad abitare, dopo averle occupate, Mozia, Solunto e Panormo vicino agli Elimi” (Tucidide, VI 2, 6), spinti anche da motivi strategici, sia per avvicinarsi alle città degli Elimi, loro alleati, sia per poter raggiungere con una certa rapidità Cartagine, colonia fenicia principale. La posizione dell’isola di Mozia doveva risultare di certo appetibile per i Fenici e per la loro spiccata vena commerciale.
Così il flashback di Tucidide sulla Sicilia e sui gruppi che la popolavano si rivela per noi una fonte preziosa di informazioni e di conferme: sono i Fenici a stanziarsi a Mozia e a lasciarvi le impronte ancora visibili ai turisti e ai visitatori dei nostri giorni.
Se Tucidide ci ha tramandato una notizia sulla fondazione di Mozia, qualche secolo più tardi Diodoro Siculo (I sec.a C.) ci informa sulla sua distruzione: ci racconta, infatti, che Dionisio I, tiranno di Siracusa tra il 406 e il 367 a.C., intendeva affermare il suo dominio in Sicilia. Perciò egli mosse guerra alle colonie di Cartagine, la madrepatria mediterranea dei Fenici, che a sua volta aveva mostrato di volersi espandere nella Sicilia occidentale. Secondo la testimonianza di Diodoro, Dionisio impiegò molte forze contro Mozia, che in quel tempo era divenuta la principale base navale dei Fenici in Sicilia e perciò un bersaglio da colpire per ottenere più facilmente la vittoria su di loro. Diodoro scrive che quella città, posta su di un’isola distante “sei stadi” dalla Sicilia, era “fedelissima” ai Cartaginesi e perciò destinata ad essere devastata per prima.
Il resoconto dei fatti bellici, che accompagnarono l’attacco contro Mozia, ha offerto allo scrittore l’occasione, per noi importante, di raccogliere l’estrema immagine della città, così come doveva presentarsi pochi istanti prima della distruzione: “La stessa città si trova in un’isola, distante sei stadi dalla Sicilia, costruita in maniera sommamente artistica per la moltitudine e la bellezza delle case, grazie alla ricchezza degli abitanti” (Diodoro, XIV 48, 2). Così fotografata da Diodoro, la Mozia di un tempo, opulenta e lussuosa, doveva essere lo specchio dei suoi fervidi commerci e della sua florida economia.
Continuando a seguire il racconto dello storico siceliota, gli aiuti inviati a Mozia da Cartagine non giungevano a destinazione, le città alleate versavano in difficili condizioni, sicché i Moziesi potevano contare solo sulle proprie forze.
Dionisio I riempì il braccio di mare tra la città e la costa siciliana, una sorta di molo per potere accostare le macchine da guerra alle mura. Anche i Moziesi, in precedenza, avevano costruito una strada che univa l’isolotto alla costa, ma in quell’occasione l’avevano distrutta proprio per impedire l’accesso ai nemici.
L’esercito siracusano riuscì a superare le mura e i Moziesi, pur disperando della salvezza, continuarono a lottare con accanimento, trincerandosi dietro le loro case sontuose. Essi temevano la vendetta dei nemici contro i loro figli, le loro mogli, i genitori, perché già in passato i Fenici avevano trattato i prigionieri greci con crudeltà. Spinti dall’amore per i loro cari e dall’impossibilità di fuggire, i Moziesi seppero resistere per giorni all’assedio. Infine, l’esercito di Dionisio riuscì a irrompere nella città e a metterla a sacco: “Se ne ricavava molto argento, non poco oro, vesti di lusso e una gran quantità di altri oggetti di valore, mentre Dionisio vendette come bottino i superstiti dei Moziesi” (Diodoro, XIV 53, 3). Così conclude testualmente Diodoro, permettendoci di guardare da lontano le sorti della città. Nel 396 a.C. il navarco dei Cartaginesi recuperò Mozia, ma le fortificazioni non vennero più ricostruite: da quel momento la nuova base strategica dei Cartaginesi sarebbe stata la vicina Lilibeo. Spetterà a chi vorrà riportare alla luce i suoi resti, molti secoli più tardi, farla rivivere.
La tradizione scritta ha pertanto documentato la presenza della civiltà a Mozia, la città dei Fenici, dei commerci e della ricchezza, conservando il ricordo di una tra le colonie puniche più fiorenti. Così, ammirandone i resti a distanza di oltre duemila anni, possiamo immaginarne la sontuosa bellezza o l’antico coraggio degli abitanti nella strenua resistenza al nemico.
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