Ore 11: ho l’appuntamento per l’intervista. Sono tesissima aspettando in sala d’attesa e invece non c’era motivo di esserlo perché ho conosciuto una donna di straordinaria sensibilità, innamorata del suo lavoro e soprattutto di Mozia. Cominciamo una piacevole conversazione. Nell’isola si trovava già, nei locali dove oggi c’è il nuovo museo, la collezione Whitaker, il ricco commerciante inglese che acquistò l’isola all’inizio del secolo scorso e che poi decise di esporre tutti i reperti (circa 10.000) da lui stesso rinvenuti. La dott.ssa Maria Luisa Famà, laureata in Lettere Classiche all’università “La Sapienza” di Roma e specializzata in Archeologia del Vicino Oriente, si è occupata dell’aspetto scientifico e del coordinamento delle operazioni per la realizzazione del nuovo museo, profittando delle proprie conoscenze, visto che dal 1977 fino al 1999 ha lavorato stabilmente a Mozia. Il nuovo museo ha l’obiettivo di mostrare tutti i reperti raccolti in età moderna, da dopo Whitaker agli ultimi scavi, cioè dal 1955 circa fino al 1995.
I manufatti conservati e catalogati sono ritrovamenti di diverse équipe, quali:
- l’Istitituto di Archeologia e Filologia semitica di Leeds (Gran Bretagna), coordinato e diretto dal prof. Beniamin J. Isserlin, archeologo di fama mondiale, noto fra l’altro per gli scavi in Egitto e in Israele, che dal 1995 fino ai primi anni 70 si è occupato del santuario di Cappiddazzu, della strada di Porta nuova, del quartiere di Porta sud, del cothon e, in particolare, del canale dello stesso, che è stato, con un duro lavoro, svuotato e ripulito;
- la prof.ssa Antonia Ciasca, scomparsa il 1 marzo del 2001, all’età di 70 anni, con grave cordoglio dei suoi collaboratori e degli amici più cari, tra cui appunto la dott.ssa Famà ed estimatori, in quanto prestigiosa docente dell’unica cattedra di Archeologia fenicio-punica all’università della Sapienza di Roma. Il gruppo ha lavorato tra il 1964 e il 1970 nella zona del tophet, delle mura e in parte della zona B dell’abitato; a lei, inoltre, si devono alcune fra le maggiori pubblicazioni riguardanti l’isola di Mozia;
- il prof. Vincenzo Tusa, a buon diritto considerato come il padre della moderna archeologia siciliana, che si è occupato dei quartieri ceramici in zona k a sud della necropoli, in collaborazione con la cattedra di attività puniche dell’ateneo di Palermo;
- sono state indagate, inoltre, tutte le zone dell’abitato zona a, settore centrale, e la necropoli.
L’unica serie di reperti, non di origine locale, sono i corredi scoperti a Birgi dalla dott.ssa Famà che confuterebbero la teoria di Biagio Pace, cioè che Birgi sia stata una nuova necropoli di Mozia la cui popolazione, esauriti gli spazi, avrebbe deciso di seppellire i propri defunti sulle coste di fronte mediante la costruzione della strada che collega Mozia a Birgi, visibile ancor oggi nelle giornate di bassa marea. La dott.ssa Famà precisa, in merito, che un’opera di così sorprendente abilità ingegneristica non può essere stata costruita solo per il trasporto dei defunti, ma avrà avuto una funzione di collegamento per l’approvvigionamento e il commercio per esempio delle famose ceramiche, soprattutto vasi venduti spesso già pieni di libagioni, prodotte sull’isola. Questa tesi verrebbe confermata anche dall’ultimo ritrovamento di resti di abitato nei pressi della necropoli di Birgi.
“Il nuovo museo di Mozia -sottolinea la dott.ssa Famà- è il solo in Sicilia che al 90% contenga reperti pertinenti un unico sito archeologico fenicio-punico, quale è Mozia”, e la sua importanza risiede proprio in questo, poiché dà un’idea complessiva della presenza di questa civiltà in loco e di tutto il periodo storico relativo. I reperti sono stati sistemati secondo un criterio storico-topografico. Ogni vetrina contiene tutto di un monumento; inoltre, alle pareti di ogni sala, sono affissi, secondo richiesta specifica della stessa Famà, alcuni tabelloni esplicativi, che permettono al visitatore di mettere in continuo collegamento il “dentro” e il “fuori”, il reperto e il suo luogo di ritrovamento, il museo e il monumento, accanto al quale ogni tabellone di riferimento è fedelmente riportato.
Ma vediamo in dettaglio: all’ingresso troviamo una sala dedicata a Giuseppe Whitaker, la cui collezione è stata raggruppata in uno spazio più esiguo ma nei medesimi locali.
La prima sala riguarda i Fenici: i tabelloni raccontano le peculiarità storiche, religiose, commerciali, artistiche, coloniali precipue di questa civiltà. Al centro della stanza, un plastico dell’isola di Mozia dà al visitatore un’idea orientativa del luogo in cui si trova. Al centro della seconda sala troviamo la statua del Giovane di Mozia, in marmo bianco, alta m 1,81, vero pezzo forte del museo, in quanto originale greco del v sec., commissionato, forse, da uno dei ricchi abitanti di Mozia.
Sulle pareti della terza sala ci sono diverse vetrine: la prima raccoglie reperti riguardanti Mozia prima dell’arrivo dei Fenici. Una cartina indica il luogo di ritrovamento; in altra vetrina sono esposti i reperti delle fortificazioni, ovvero delle mura. La terza, quarta e quinta teca contengono i ritrovamenti degli abitati. La sesta è completamente dedicata all’economia dell’isola, ovvero sono esposte ceramiche rinvenute lungo la costa nord orientale, di varie forme, misure e usi diversi. Interessante la loro disposizione: infatti, sono state sistemate come a simulare la fasi della loro produzione, creazione, decorazione, rifinitura; la settima vetrina è dedicata alla sfera religiosa e contiene i ritrovamenti del santuario di Cappiddazzu. Accanto ad essa, una vetrina più piccola è dedicata ai resti dei due sacelli situati davanti ai torrioni della Porta nord, di cui uno di culto fenicio-punico e l’altro greco con pianta prostilo in antis. Ciò dimostra la compresenza sull’isola di Greci e Fenici, confermando la testimonianza di Diodoro Siculo secondo il quale Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, prima di scagliare il colpo finale contro l’isola, abbia rivolto un appello ai Greci di Mozia, affinché si nascondessero nei loro templi per essere così salvati dal massacro. L’ottava vetrina è dedicata al tophet, altro santuario al cui interno si trova un campo sacro dove venivano deposti i resti umani offerti alle divinità fenicie come Baal Hammon, che esigeva il sacrificio dei primogeniti maschi. I tophet sono noti solo nelle colonie; quindi sono una costruzione tipica delle zone occidentali, in uso dall’VIII sec. a.C. fino al III sec.a.C. Praticamente la storia del santuario coincide con la vita della città o almeno con il suo periodo d’oro.
Sempre nel settore del museo destinato ai reperti di carattere religioso sono esposte urne, terrecotte figurate, protomi femminili di origine greco-egizia, statuette al tornio di produzione punica con ascendenze orientali e alcune stele, le più significative fra le moltissime ritrovate che dal VI secolo venivano disposte assieme alle urne per segnalare il luogo della deposizione, a volte con una breve e semplice iscrizione indicante il nome dell’offerente. Il percorso finale è dedicato alla necropoli e ai corredi funerari di Birgi.
Questo museo è di rilevante interesse non solo per la sua ricchezza, ma perché da ogni teca spira il fascino di una terra che ha conservato le sue caratteristiche primitive, preservate anche e soprattutto dalla sua condizione insulare, ancora ricca di segreti da scoprire.
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