L’utilizzo della policromia nel mondo antico è una delle incognite più gravose per gli studiosi del passato. Fino alle prime rilevanti scoperte archeologiche, era diffusa la credenza che la produzione architettonica e scultorea fosse priva di colore. Il tutto veniva favorito sia dalla brillante superficie bianca dei reperti, frutto del degrado, sia dalle correnti di pensiero portate avanti da personalità come il Winckelmann, che caratterizzarono gli studi del 1700 e del 1800.
Lo studioso tedesco sosteneva, infatti, che «il colore contribuisce alla bellezza, ma non è la bellezza, bensì esso mette soprattutto in risalto questa e le sue forme. Ma poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco, e quando è nudo sembrerà più grande di quanto è effettivamente».
In contrapposizione a siffatti convincimenti, nacquero correnti promotrici dell’uso dei colori nella scultura antica; lo studioso Antoine Chrysostome Quatremère De Quincy sostenne la teoria sulla presenza dei colori, proprio citando nel suo libro alcune fonti antiche. Plinio il Vecchio, Pseudo Aristotele, Teofrasto ed infine Vitruvio forniscono, infatti, descrizioni dettagliate sulle materie prime, sui procedimenti per la preparazione delle sostanze coloranti e persino sui prezzi. Sempre nella stessa epoca, cominciarono ad essere realizzate le prime ricostruzioni. Il centro di tutto fu Monaco di Baviera che, con le sue strutture museali e con la sua mentalità aperta, prese a cuore la questione.
Gli studi scientifici ricominciarono alla fine del XX secolo quando ebbero inizio le prime analisi chimiche da parte di Michael Faraday. Da qui partì una serie di iniziative da importanti istituzioni e centri di studio autonomi, come il British Museum o la Glyptothek di Monaco di Baviera, volte alla realizzazione di analisi sempre più dettagliate. Attualmente la conoscenza che abbiamo dei colori usati in antico ha raggiunto, grazie ai riscontri chimico-fisici e alle stesse fonti antiche, un buon livello di attendibilità.
I colori più adoperati, estratti da elementi di origine minerale, vegetale e animale, erano il rosso, il giallo, l’azzurro e il bianco, e tutte le sfumature ottenute dalla loro unione. Il colore rosso si otteneva con materiali come il cinabro (un solfuro di mercurio rosso, HgS) e l’ematite (ossido ferrico), e, almeno nella scultura, veniva utilizzato, oltre che per dipingere il chitone rosso, anche per la resa di pelle, occhi, capelli, criniere e ciuffi di animali; il giallo da ocre (ossidi ferrosi naturali e idrossidi di ferro) e limoniti, come ad esempio l’orpimento (trisolfuro di arsenico), contemplato soprattutto per il vestiario, comprese armature e armi, e le capigliature; l’azzurro da elementi come l’azzurrite, il blu egiziano e l’armenian blue, composto da polvere di lapislazzuli, utilizzato soprattutto per rendere il vestiario, la criniera di animali e il fondo dei rilievi funerari; il bianco veniva estratto dal bianco di calce e dalla biacca (carbonato di calcio). Colori invece come il verde, il nero e il marrone si ricavavano dall’unione dei vari elementi che componevano i colori primari, o dalla combustioni di ossa animali, ed erano impiegati soprattutto per la resa del vestiario.
Nella realtà poco rimane di questi pigmenti sulla superficie dei reperti. Nonostante l’uso di tecniche pittoriche, come l’encausto, che permisero, almeno in un primo momento, una protezione abbastanza efficace dagli agenti atmosferici, la loro sopravvivenza può essere notata, infatti, solo in piccole parti dell’opera d’arte, naturalmente quelle più protette.
Condurre quindi delle analisi chimiche, soprattutto tramite prelievo di campione, significa anche preservare ciò che è rimasto. La policromia non deve essere giudicata un fenomeno ristretto a determinate aree geografiche, a specifici periodi cronologici o a tipologie di produzioni; purtroppo le testimonianze sono ancora poco considerevoli per formulare osservazioni del genere; una delle poche certezze è rappresentata dalla scultura greca di epoca arcaica, grande fonte di ispirazione anche per le produzioni di età ellenistica. Tra gli esempi più rilevanti ricordiamo: il frontone dell’Antico Tempio di Atena; la Kore con peplo o Peplophoros; la stele funeraria di Aristione; i leoni di Loutraki; i frontoni del tempio di Aphaia ad Egina.
Il frontone dell’Antico Tempio di Atena, ritrovato sull’Acropoli di Atene e realizzato per ordine del tiranno Pisistrato (580-570 a.C.), è uno dei primi e più importanti esempi di policromia nella scultura frontonale. Rappresenta, a sinistra, Eracle nell’atto di lottare contro Tritone e, a destra, tre figure maschili alate che terminano in serpenti nell’atto di torcersi violentemente (probabilmente il demone marino Nereo). Sono rimaste tracce di colore su entrambi i gruppi scultorei; presenti il nero, l’azzurro, il rosso, il verde e il giallo, evidenti soprattutto nell’angolo sinistro, sulla coda del tritone, caratterizzata da squame variopinte e, nell’angolo destro, sui volti del mostro tricorpore. L’espressione sorridente di quest’ultimo risulta accentuata dal colore blu per barba e capigliatura. Grazie alla policromia, il turbinio e il torcersi di code è ancora più vivace e risulta ben visibile da distanze elevate.
La cosiddetta Kore con peplo o Peplophoros, databile al 530 circa a. C., interpretata in un primo momento come fanciulla offerente, si è scoperto essere la rappresentazione di una dea. In sostanza si tratta di una fanciulla in piedi, in posa un po’ rigida, vestita con il cosiddetto ependytes, una sopravveste di origine asiatica (in Grecia era riservata a divinità protettrici di una città e ai loro sacerdoti). L’utilizzazione della luce radente ha mostrato la presenza di decorazioni in corrispondenza della bordatura della casacca e sulla parte anteriore della gonna. In questa zona, sono presenti complesse scene animalistiche, le stesse osservate in raffigurazione di divinità nella pittura vascolare. Per il vestiario sono stati ipotizzati colori come il giallo, il verde, il rosso e il blu. Tracce di marrone e rosso sono state individuate anche su capigliatura e volto. La pelle è dipinta con un rosa aranciato tendente al bianco.
La stele funeraria di Aristione, rintracciata nelle vicinanze di Atene, è databile al 510 circa a.C. ed è stata attribuita alla tomba di un combattente. Lavorata a rilievo bassissimo, presenta un guerriero vestito con corto e stretto chitone, corazza sul torso, cnemidi che proteggono le gambe e lancia nella mano sinistra rialzata. Mancano la parte superiore dell’elmo, il pennacchio e la cima della stele, forse una palmetta con volute ai lati. Grazie all’uso della luce UV e di quella radente si è potuto capire che la stele era tinta con colori vivaci: rosso sul piano del rilievo, sui capelli, sulla barba e sulle labbra, azzurro sull’elmo e sugli schinieri, giallo per la resa del cuoio della corazza. Abbastanza complessa era la decorazione su quest’ultima, che dimostra anche l’impiego dell’incisione per il disegno preparatorio. Stupisce la precisione con cui è stata realizzata in corrispondenza del petto la testa leonina caratterizzata da criniera verde.
Ma la produzione policroma non è una sola prerogativa ateniese e, soprattutto, non è riservata alle sole figure umane o divine. Ne sono un esempio la coppia di leoni provenienti da Loutraki (570-550 a.C.), situata presso l’Istmo di Corinto. Entrambi gli esemplari, conservati presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, presentano i caratteri geometrici riservati alla rappresentazione degli animali. Pelliccia e capigliatura evidenziano colori accesi: blu per la criniera e la coda, giallo per il corpo ferino. Il colore rosso accentua i caratteri del muso: file di puntini sottolineano le vibrisse anch’esse rese in rosso. Ma è proprio presso l’isola di Egina che la policromia del periodo arcaico arriva al culmine del suo splendore. I frontoni del tempio di Aphaia ad Egina, databili al 480 circa a. C., ne sono una testimonianza. Entrambi sono dominati dalla figura centrale di Atena che assiste ai combattimenti fra troiani e achei, tra i quali si distinguono eroi egineti. Triglifi, metope e timpani sono caratterizzati con il colore blu e rosso. Dal frontone occidentale proviene il cosiddetto Arciere, identificato con la figura di Paride. Egli, inginocchiato e nell’atto di scoccare una freccia verso l’avversario, risplende nel suo costume multicolore. L’abbigliamento rivela la sua identità: una giacchetta con minuscola scollatura protegge il torso; un pantalone attillato, che sottolinea la fascia muscolare; un berretto scita i cui paragnatidi sono legati dietro la nuca. La luce radente ha portato ad osservare il complesso disegno preparatorio realizzato ad incisione soprattutto per la giacchetta. Presenti animali ferini e decorazioni di tipo geometrico che, soprattutto in corrispondenza dei pantaloni, si intensificano e si fanno più evidenti con una trama dai colori vivaci. Ben poco rimane della policromia originaria, ma si possono osservare il colore rosso, il blu e l’ocra gialla. Le analisi chimiche hanno confermato la presenza del blu, ottenuto tramite l’uso dell’azzurrite, del verde, con l’ausilio della malachite e del rosso cinabro. La stessa complessità policroma la si è potuta notare per l'Atena proveniente dallo stesso frontone; essa rappresenta il centro della scena. Indossa un lungo chitone e la tradizionale egida priva della figura gorgonica, ma contornata da spire serpiformi e mille scaglie variopinte. Per queste ultime si è pensato ai colori blu, rosso e verde che, alternandosi a fasce, intessono un complesso motivo geometrico. La minuziosità resa per la decorazione del gruppo frontonale occidentale si osserva anche in quello orientale. Superstite è la testa di guerriero con elmo. La luce radente e i raggi UV hanno permesso di rendere ancora più evidente la decorazione a squame, già visibile in parte ad occhio nudo. Quasi sicuro risulta l’utilizzo del colore rosso, del blu, e del verde. Il giallo ocra è stato invece adoperato come elemento di separazione tra una scaglia e l’altra. Il volto presenta tonalità differenti rispetto a quelle dell’arciere del frontone occidentale. La pelle appare, infatti, più scura, forse a causa dei diversi pigmenti utilizzati. I frontoni del tempio di Aphaia rappresentano, come tutti i reperti di epoca arcaica, gli esemplari migliori per effettuare studi più approfonditi sulla policromia nell’antichità, almeno in attesa che gli scavi ci restituiscano altri esemplari. A partire dall’epoca classica, infatti, si privilegeranno le tinte più tenui e ne sono un esempio le stesse opere monumentali dello scultore Fidia.
Oggi, ancora abituati alle candide superfici bianche, abbiamo difficoltà a immaginare sculture antiche colorate. L’uomo è rimasto influenzato dai canoni neo-classici. L’ispettore del reparto Antichità classiche dei Musei Vaticani Paolo Liverani definisce tutto ciò “uno dei più colossali fraintendimenti che la storia dell’arte conosca”. Egli riconosce anche che ricostruire l’intera policromia di un reperto antico è cosa quasi impossibile ma che, attraverso le analisi chimico-fisiche, si può almeno giungere a delle ipotesi più o meno attendibili, affinché la voce del passato non rimanga inascoltata. Il colore è stato sempre parte integrante della vita dell’uomo e privarlo alla produzione artistica significherebbe capire solo in parte il valore dell’opera.
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