Da’ tempi più rimoti sino a’ giorni nostri si è scritto da diversi storici, in parecchi volumi ed opuscoli, sulla città di Trapani, la cui origine si è creduto fare risalire ai tempi della favola. Così scriveva Fortunato Mondello nel 1880, canonico della chiesa di San Pietro e vice bibliotecario della Fardelliana.
In effetti, una nota peculiare della città di Trapani è rappresentata dalla sua plurisecolare presenza nella storia e nel mito della civiltà mediterranea. Una presenza senza soluzione di continuità che va dal mito di Enea fino ai tempi nostri. Virgilio ha reso di pubblico dominio ai suoi tempi i rapporti gentilizi tra i Trapanesi e i Troiani, fondatori della nuova Troia lungo il litorale laziale. Per ben due volte il padre Enea approda negli ospitali porti della città bagnata da due mari e ogni volta l’immagine di questi luoghi, che viene focalizzata, è quella dell’ospitalità, dell’accoglienza, del piacevole otium che l’eroe troiano con il suo numeroso seguito di uomini, donne e bambini può concedersi, dopo le tristi vicissitudini seguite alla distruzione della superba Ilio.
Enea approda una prima volta a Trapani spintovi dalla tempesta, una seconda volta di ritorno dal regno dell’infelice Didone, da lui sedotta e abbandonata. Il V libro dell’Eneide è proprio dedicato alla nostra terra e al nostro mare, palcoscenico dei ludi funebri in onore del padre Anchise, qui morto un anno prima e sepolto presso il tempio della dea Venere, sua sposa e madre di Enea. Virgilio, riprendendo il racconto di Nevio, ha voluto in questo modo suggellare un rapporto molto stretto tra l’antica Drepanon e la grande capitale dell’Impero. Era, senza dubbio, un’abile mossa politica, perché la poesia e il mito venivano a sanare quella sorta di diffidenza, se non di ostilità, che verso i Romani i Trapanesi da sempre, dai tempi della potenza cartaginese, avevano mantenuto. Ancora prima di Nevio (III sec. a.C.), è pur vero che di Trapani si trova menzione in Erodoto (V sec. a.C.), in Tucidide (V sec. a.C.), in Ecateo di Mileto VI-V sec. a.C.), in Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.), in Diodoro Siculo (I sec. a.C.), in Polibio (II sec. a.C.), in Silio Italico (I sec. d.C.), per citare solo alcuni autori tra i più noti.
Mito e storia, quindi, creano una catena continua di anelli di riferimento alla città di Trapani, a testimonianza che nel corso dei millenni il suo nome è rimasto presente nelle vicende dei popoli del Mediterraneo, conservando intatto il suo toponimo, che fa riferimento alla sua morfologia: Drepanon, la falce, o Drepana, neutro plurale greco, ossia le due falci, con riferimento ai due porti, uno a mezzogiorno e uno a tramontana.
È probabile, come sostiene Tucidide, che la prima civiltà che si affermò in queste terre fu quella sicana. Anzi i Sicani si definivano autoctoni di questa terra, in quanto, provenienti dalla penisola iberica, furono in grado di liberare questa parte estrema della Sicilia occidentale dai Lestrigoni e dai Ciclopi, mostri a lungo perduranti nell’immaginario collettivo. Il termine Lestrigoni, del resto, pare derivi dalla radice di grado forte del verbo greco gon, che vuol significare la nascita, e il sintagma latino ex illa terra, cioè da quella terra. Ma Trapani, al di là del mito, sviluppò una sua civiltà del mare, attraverso i commerci, l’impresa cantieristica, la pesca, il sale, l’agricoltura che, a dire del Pugnatore, qui era più florida che altrove per i suoi salsi venti e per la fertilità del suolo. In tutte queste operazioni, suoi alleati furono i Fenici prima e i Punici successivamente. Il rapporto con la potenza cartaginese si mantenne sempre saldo anche nelle imprese militari, sia contro l’avanzata dei Greci sia contro l’espansionismo militare dei Romani. Le vicende della Prima guerra punica (264-241 a.C.) ebbero il loro epilogo in queste acque con la battaglia delle Egadi, che segnò non solo la sconfitta dell’impero cartaginese ma anche il declino economico e politico di Trapani a vantaggio della vicina Lilibeo, ove i Romani trasferirono il governo amministrativo, con i loro avidi pretori. Trapani, comunque, grazie al suo porto, continuò ad essere un centro importante per la navigazione marittima, soprattutto per le navi annonarie che caricavano olio, vino e frumento per la capitale dell’impero. Dopo la caduta dell’impero romano, Trapani conobbe l’incursione dei Vandali, poi la dominazione dei Bizantini, la conquista degli Arabi-Saraceni, che ne fecero una delle più fiorenti città della Sicilia, anche per la sua vicinanza con la costa nord-africana. Né il suo nome fu oscurato dalle successive dominazioni, che anzi conobbe un florido sviluppo sotto la dominazione normanna e ricevette un vigoroso impulso dalle crociate, grazie ancora una volta alla posizione del suo porto, frequentato da Genovesi e Pisani durante il XII secolo.
La città di Trapani continuò per tutto il Medioevo ad essere presente nei momenti storici più rilevanti. Fu attiva nella cacciata degli Angioini durante i Vespri, anzi fu la prima città dell’Isola ad accettare Pietro d’Aragona e nelle acque di Trapani gli Angioini furono sconfitti nel 1284. Anche i successivi tentativi della casa d’Angiò di impadronirsi della città, contesa per la sua importante posizione geografica, fallirono miseramente, sia nel 1314, con Roberto d’Angiò, che assediò per più di un anno la città per terra e per mare, sia nel 1432, anno in cui Luigi d’Angiò tentò un nuovo assedio.
A questo punto, dopo l’excursus storico, che ha voluto dimostrare la costante presenza di Trapani in tutti i momenti delle alterne vicende dei popoli che si affrontavano e confrontavano nelle acque del Mediterraneo, entriamo nel tema che ci siamo proposti ed esaminiamo la percezione che di questa città il Boccaccio ha registrato nel suo capolavoro.
In un suo saggio giovanile del 1926, sulla tecnica di composizione della novella, Erich Auerbach annotava che nel Medioevo la novella non poteva affermarsi, se è vero che essa coglie spunto dalla realtà immanente che nell’Alto Medioevo non era stata considerata degna di osservazione, o tutt’al più era stata interpretata come allegoria. “Il mondo, trascurato per tanto tempo, aveva voltato le proprie spalle all’uomo così come l’uomo aveva voltato le proprie spalle al mondo”. Il Boccaccio, in questo senso, è fuori del Medioevo, in quanto sa guardare alla realtà sensibile, ne sa cogliere accidentalità e contraddizioni, trasferendo la casualità degli eventi in una società ideale, dove le donne si presentano con una nuova immagine che sta alla pari con quella dell’uomo. In questo modo, l’autore con la cornice che contiene le 100 novelle del Decameron contrappone al caos e alla dissoluzione prodotti dalla peste del 1348 una società ideale, dove la cortesia e la gentilezza hanno la meglio sulla violenza e la brutalità e dove l’amore è considerato una forza naturale, che solo se rispettata in quanto tale può essere governata da ragione e morale (I. Calvino).
Di contro alla cornice ideale che lega le novelle, di contro all’ideale di vita aristocratico che essa esprime, i personaggi delle storie sono fortemente caratterizzati. La cornice, sottolinea I. Calvino, si presenta come la scena del teatro classico, generica, immagine dello spazio ideale in cui prendono corpo le storie. Tale contrasto diventa, perciò, l’allegoria della vita, o meglio l’aspirazione a trovare rifugio in un’atmosfera ideale, che ignora la precarietà dell’esistenza e i riflessi etico-religiosi che condizionano le scelte, le passioni, i sentimenti umani. In tale ambiente, tutto è lecito perché tutto è naturale e svanisce ogni ombra di peccato. Il tessuto dell’opera ha un ordito fatto di storie, dove l’una richiama l’altra, probabilmente costruito sulla scorta dell’arte di raccontare appresa dai mercanti. E il Boccaccio appartiene alla società mercantile, la quale si regola con leggi e regole, quelle stesse che troviamo all’interno del Decameron che, sottolinea Italo Calvino, si presenta come una “giostra narrativa che si ripete ogni sera, ordinata da regole molto precise come un torneo cavalleresco o meglio come un mercato in cui ognuno ha qualcosa da dare e qualcosa da guadagnare”.
Sicuramente, dai mercanti che transitavano nel porto di Napoli il Boccaccio venne a conoscenza di tante novelle e vicende avventurose. In particolare, circolavano in tutti i paesi dell’aria mediterranea e asiatica le 1000 favole che costituivano il testo originario persiano del secolo X di Le mille e una notte, intessute da una cornice che le racchiudeva: il sultano di Persia, tradito dalla moglie, aveva deciso di uccidere le proprie amanti dopo una sola notte. Shahrazad sfugge al crudele decreto, intrattenendo il sultano con una serie di racconti meravigliosi, opportunamente interrotti di notte in notte e per 1000 notti, fino alla definitiva capitolazione del sultano. I manoscritti di questo fantastico libro sono tanti e tutti diversi per la quantità delle favole e per la loro lunghezza. Il codice più antico e forse il migliore, secondo Pietro Citati, risale al XIII secolo, proveniente dalla Siria o dall’Egitto.
L’illustre narratore e poeta accenna a Trapani nella quarta novella della quarta giornata, nella seconda e nella settima novella della quinta giornata. La quarta e la quinta giornata sono quelle in cui maggiormente l’autore fa prevalere la sua concezione naturalistica dell’amore, inteso come istinto ispirato dalla natura stessa, per cui, a voler contrastare le leggi della natura “troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano,ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano”. A proposito delle novelle della quarta e quinta giornata, Vittore Branca annotava che lo scrittore fiorentino descrive gli uomini e le donne “destinati alle più alte prove della gioia e del dolore umano, cioè delle grandi avventure passionali, al regno di questo sovrano del mondo, di questo reggitore dei sapienti e degli ignoranti, che è l’Amore”.
Nella quarta giornata “si ragiona, sotto il reggimento di Filostrato (vinto e distrutto dall’amore), di coloro li cui amori ebbero una conclusione infelice”.
La novella quarta è raccontata da Elissa. La vicenda è ambientata al tempo di Guglielmo II d’Altavilla, re di Puglia e di Sicilia. Questi regnò dal 1166 al1189 e fu considerato re giusto e buono dai letterati e dai cronisti medievali per la sua generosità. Dante lo pone in Paradiso, fra gli spiriti giusti, ricordandolo come il buon regnante cui quella terra plora/ che piagne Carlo e Federigo vivo (Par. XX). Il riferimento è a Carlo II d’Angiò, re di Napoli e a Federico II d’Aragona, figlio di Pietro III, al quale la pace di Caltabellotta (1302) riconobbe il possesso della Sicilia, col titolo di re di Trinacria, che lo stesso trasformò in re di Sicilia, quando decise di proclamare il diritto del figlio Pietro alla successione (1313).
Guglielmo II ebbe due figli, Ruggiero e Gostanza. Da Ruggiero nacque Gerbino, che fu allevato amabilmente dal nonno e divenne famoso per la sua prodezza e la sua cortesia. Gerbino è, comunque, un personaggio immaginario. La fama della bellezza e delle virtù di questo giovane si espanse presto per tutto il mondo abitato e giunse anche in Barberia, odierna Tunisia, regione allora tributaria del regno di Sicilia, occupata nel 1175 da Gugliemo il Buono. Il re di Tunisi aveva una figlia, tra le più belle creature che mai la natura avesse fatto, di animo nobile e costumato. Questa fanciulla, udendo il racconto degli uomini di corte sulle valorose imprese di Gerbino, pur senza conoscerlo, cominciò a provare in cuor suo un sentimento d’amore sempre più grande, alimentato dalla fantasia di un’anima candida e desiderosa d’amare. D’altra parte, la fama della bellezza della fanciulla e delle sue tante virtù giunse alle orecchie di Gerbino, nel cui cuore si accesero una irrefrenabile passione e il desiderio di conoscere tale mirabile creatura. Ma, non presentandosi l’occasione opportuna di recarsi a Tunisi, Gerbino pregava gli amici fidati, che si recavano a Tunisi, di avvicinare la figlia del re per informarla dei suoi sentimenti e per conoscere di rimando quelli dell’amata. Lo scambio di lettere e di doni divenne sempre più frequente e l’intesa amorosa fra i due giovani quanto mai profonda a dispetto della lontananza. Sennonché, andando le cose troppo per le lunghe, il re di Tunisi decise di dare la figlia in sposa al re di Granata. La notizia gettò nella disperazione entrambi i giovani, decisi l’una a fuggire, l’altro a rapire la sua amata, assalendo la nave che l’avrebbe trasportata in Spagna per le nozze. L’ardito piano di Gerbino giunse alle orecchie del re di Tunisi, il quale si premurò di far sapere a Guglielmo del viaggio della propria figliola per chiederne le opportune garanzie. Re Guglielmo, che era all’oscuro dell’innamoramento del nipote e delle sue intenzioni, inviò al re di Tunisi un suo guanto, come segno della garanzia promessa. Di tutto ciò la fanciulla riuscì, attraverso un servo fidato, ad informare Gerbino, al quale chiedeva un estremo atto d’amore: mostrasse tutto il suo valore e la sincerità dei suoi sentimenti, impedendo che andasse sposa al re di Granata. Pur sapendo che la sua impresa avrebbe nuociuto all’onore del nonno, Gerbino decise di armare una nave e di sottrarre la sua amata al matrimonio indesiderato. Intercettata la nave dei Saraceni, Gerbino chiedeva al comandante della nave che gli venisse consegnata la donna che avevano a bordo, ma ottenutone il rifiuto si decise ad attaccar battaglia, dando fuoco alla nave nemica. La risposta dei Saraceni fu di inaudita efferatezza: il comandante saraceno, fatta salire sopra coperta la fanciulla, che piangeva disperatamente, le fece recidere le vene e la fece gettare in mare. A quel punto, Gerbino, come un leone famelico in mezzo alle giovenche (immagine mutuata dalla lettura dei classici latini), salì a bordo della nave nemica e con le armi, con le mani e con i denti fece strage dei Saraceni ancor prima che la nave fosse distrutta dall’ incendio. Quindi, fatto raccogliere il corpo della fanciulla dal mare, le diede onorata sepoltura ad Ustica, piccoletta isola quasi a Trapani dirimpetto.
Questa nota geografica ci fa supporre che il Boccaccio non conoscesse i luoghi di cui parlava, o che probabilmente s’era diffuso erroneamente quanto l’arabo Idrisi nel suo Libro di Ruggero aveva annotato: a mezzogiorno di Ustica si trova Favignana. Essa sovrasta alla città di Trapani, e l’una dista dall’altra quindici miglia. È probabile, quindi, che l’isola non sia Ustica, ma proprio Favignana, la quale è molto più vicina a Trapani della piccola isola di Ustica. Del resto, il geografo arabo indica correttamente la posizione geografica di Favignana, ma non ne annota la distanza. Tale accostamento descrittivo avrà prodotto il falso convincimento che Ustica fosse posta dirimpetto a Trapani anziché a Palermo. Indipendentemente dal disguido geografico, ha ragione Cesare Segre, quando nota che “l’insistenza del Boccaccio su viaggi e fughe per mare dipenda da un preciso calcolo artistico: compensare la concentrazione temporale delle vicende con una dispersione spaziale.
Il nome della città di Trapani ritorna nella seconda novella della quinta giornata, dove a differenza della quarta, “sotto il reggimento di Fiammetta (che ricorda l’amore infelice del giovane scrittore per Maria d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto) si ragiona di ciò che ad alcun amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse”.
La scena si svolge nell’isola di Lipari, dove vivevano una bella, ricca e nobile fanciulla di nome Gostanza e Martuccio, giovane assai leggiadro e costumato ma povero. I due erano innamorati l’uno dell’altra, ma il padre di Gostanza si opponeva al loro matrimonio, disprezzando lo stato sociale e le condizioni economiche di Martuccio. Sdegnato di vedersi rifiutato, questi armò una piccola imbarcazione e con alcuni compagni lasciò Lipari, intenzionato a farvi ritorno solo se in condizioni agiate. Datosi alla pirateria, divenne ricchissimo ma, non sapendo moderarsi nella sua fortuna, fu attaccato dai Saraceni, che affondarono la sua nave, lo privarono dei suoi beni e lo condussero prigioniero a Tunisi. A Lipari giunse presto la notizia dell’avvenimento e, per di più, che Martuccio con i compagni erano morti annegati. Tanto grande fu la disperazione di Gostanza che, nottetempo, si recò al porto e, salita su una navicella di pescatori, prese il largo e si mise piangendo a giacere nel fondo della barca, decisa a porre fine alla sua vita. Ma la fortuna volle che la corrente spingesse l’imbarcazione sulla spiaggia di Susa, cento miglia sopra Tunisi, dove fu accolta da una femminetta, di nome Carapresa e trapanese d’origine, che lavorava al servizio di alcuni pescatori cristiani. La donna, commossa dal racconto di Gostanza, decise di aiutarla e la condusse in città presso l’abitazione di una donna saracena, nota per la sua onestà e misericordia. Qui Gostanza fu accolta con affetto dalla generosa saracena, qui apprese la lingua araba e imparò diversi lavori di tessitura. Mentre ormai Gostanza era creduta morta dai suoi familiari, avvenne che un giovane di nobile famiglia e di molta potenza militare, che viveva a Granada, decise di attaccare il re di Tunisi per impadronirsi del suo regno. Appresa la notizia, Martuccio chiese ai custodi della prigione di comunicare al re che aveva un piano strategico da proporgli. Presto detto, Martuccio si trovò ad esporre il suo piano al re: gli consigliò di preparare delle frecce con le cocche strette e degli archi con le corde sottili. In questo modo, dopo il primo reciproco saettamento, i soldati del re avrebbero potuto utilizzare, al contrario dell’avversario, le frecce scagliate da questo. Il re di Tunisi, grazie a questa strategia, vinse la sua guerra e Martuccio, per conseguenza, divenne un personaggio importante e ricco. La fama di Martuccio presto giunse alle orecchie di Gostanza, la quale, con l’aiuto della signora saracena, si recò a Tunisi e, qui i due giovani incontratisi, sentirono riaccendersi nei loro cuori la fiamma dell’amore. Così decisero di ritornare a Lipari, colmi di grandissimi e nobili doni, portando con sé anche la trapanese Carapresa.
Il Boccaccio, più del Petrarca, riesce a cogliere le diverse modulazioni dell’animo femminile e alle donne egli rivolge la sua opera, dandone anche una motivazione nel Proemio: le donne per timore o vergogna tengono chiuse le loro amorose fiamme nei loro delicati petti, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti e trascorrono la maggior parte del loro tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse, logorandosi con i loro pensieri. Al contrario, gli uomini, quando soffrono per amore, riescono a distrarre le loro menti con l’andare attorno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, mercatare. Per compensare tale ingiustizia della Fortuna verso il gentil sesso, il Boccaccio dedica la sua opera proprio alle donne, precisamente quelle che amano, affinché ne traggano diletto e utile consiglio. Del resto, l’onesta brigata che racconta le cento novelle è in prevalenza femminile, composta di sette donne e tre giovani. Lo scrittore non si lascia condizionare né da quanti lo accusano di essersi allontanato dalla poesia, né da coloro che denunciano la licenziosità di alcune sue novelle. Ai primi risponde che con il Decameron non si è allontanato dal monte delle Muse; nei confronti dei lettori più retrivi, rivendica il suo diritto ad una letteratura laica, non condizionata da alcun freno moralistico, in una parola, moderna e ispirata ad una concezione naturalistica dell’amore come di ogni altra attività umana.
I riferimenti alla città di Trapani sono determinanti nella settima novella della quinta giornata, raccontata da Lauretta. La vicenda, infatti, si svolge tutta a Trapani e il quadro storico è il medesimo della novella quarta della quarta giornata. La Sicilia è governata da Guglielmo il Buono e il capitanato di Trapani è affidato al nobile uomo Amerigo della famiglia degli Abbate. La corrispondenza storica suscita, comunque, qualche perplessità, in quanto Guglielmo il Buono muore nel 1189 mentre gli Abbate cominciano ad essere attivi a Trapani a partire dagli inizi del ‘200. Questo signore disponeva di molte ricchezze e di una famiglia numerosa, per cui, avendo bisogno di molti servitori, acquistò alcuni fanciulli, fatti schiavi da una nave corsara genovese proveniente da Levante. Tra questi, in particolare, si distingueva un giovane di migliore aspetto e di belle maniere di nome Teodoro, che messere Amerigo cominciò ad apprezzare molto, lo fece battezzare e lo chiamò Pietro. Sennonché presto la figlia di messere Amerigo, Violante, di aspetto bello e gentile nei modi, s’innamorò di Pietro e lo stesso avvenne nel cuore del giovane. Ma per ovvi motivi, nessuno osava rivelare i propri sentimenti, che tuttavia trapelavano dai loro sguardi e dai loro sorrisi.
Avvenne che un giorno la madre di Violante con la figlia e altre donne decisero di recarsi in gita in una loro proprietà un miglio fuori di Trapani. Con loro andò anche Pietro. Improvvisamente si scatenò un temporale e l’allegra compagnia cercò rifugio come poteva. Violante e Pietro, che erano più giovani e più veloci nel correre, trovarono riparo in un piccolo casolare abbandonato, costretti a stare abbracciati per ripararsi sotto il poco tetto ch’era rimasto. Questa volta l’amore che a nullo amato amar perdona non tardò a rivelarsi e i due giovani, scrive con compiaciuto pudore il Boccaccio, ne conobbero e ne assaporarono tutte le dilettazioni. Rimasta Violante incinta, fu costretta a rivelare alla madre la sua condizione ma, come aveva promesso, non fece il nome di Pietro. La madre, preoccupata delle reazioni del marito, allontanò da casa la fanciulla, che andò a portare a termine la gestazione in una tenuta di loro proprietà. Per caso, mentre Violante era aggredita dai dolori del parto e alzava alte grida in procinto di dare alla luce la sua creatura, il padre, che si trovava in quei luoghi per una battuta di caccia, attirato dalle grida, entrò in casa. Grande fu la sua indignazione e, in preda ad un’incontenibile ira, sarebbe stato pronto ad uccidere la figlia se non gli avesse confessato il nome del padre del bambino. Atterrita, per salvare se stessa e la sua creatura, Violante fece il nome di Pietro. Così il giovane fu arrestato e condannato a morte.
Per caso, e il caso gioca sempre un ruolo importante nelle vicende umane, si trovavano a Trapani tre ambasciatori armeni, inviati dal loro re per trattare con il Papa. A Trapani, per spezzare la lunghezza del viaggio, ma forse informati anche della buona ospitalità che la città offriva agli stranieri, avevano preso alloggiamento. Questi, richiamati dalle grida della folla, che seguiva il povero Pietro al patibolo, si affacciarono e uno di essi, uomo di grande autorità, notò sul petto di Pietro una grande voglia rossa, tale e quale quella del figlio, che gli era stato rapito dai corsari anni prima. Istintivamente gridò il nome di Teodoro e gli rivolse delle parole in lingua armena. La risposta del giovane nella stessa lingua fu la conferma che Pietro era suo figlio Teodoro. La novella si conclude felicemente con le nozze dei due giovani.
Sul piano della morale, non stupisce l’atteggiamento eccessivamente severo del padre nei confronti della figlia, che aveva attentato all’onore della famiglia, ma fa inorridire la crudeltà della pena e il fatto che il padre potesse disporre del diritto di vita e di morte senza doverne rispondere alla legge. Efferato appare il suo animo, non tanto al momento della scoperta della figlia partoriente, ma ancor più quando invia a casa della fanciulla il peggiore dei suoi sicari per uccidere la giovane madre e il bambino. Per essere considerato il Medioevo l’età della supremazia della religione cristiana, certamente siffatti atroci atti di violenza stanno a significare che della pietas e della carità cristiane quel mondo era stato permeato troppo poco e lo saranno anche i secoli successivi, se si pensa all’intolleranza della chiesa di Roma contro i veri o falsi dissenzienti nei secoli bui del Tribunale dell’inquisizione.
Il riferimento alla famiglia degli Abbati conferisce a questa novella un’evidente cornice storica e suggerisce che già nel XIII secolo alcuni rappresentanti di questa famiglia avevano assunto posizioni di rilievo, che saranno mantenute e ampliate sotto il regno di Federico II con Enrico, Giliberto, fratello di Enrico, Benedetto, loro cugino, Perna, sorella di Enrico e Giliberto, il cui marito, il notaio Ribaldo, fonderà la chiesa dell’Annunziata, resa famosa da Alberto Abbate, figlio di Benedetto e di Giovanna Palizzi, che fu frate carmelitano e innalzato alla gloria degli altari quale santo e protettore di Trapani. La famiglia degli Abbati nel XIV secolo era annoverata tra i maggiori contribuenti dell’Isola e pagava un tributo di 78 onze all’erario, corrispondente al mantenimento di 26 cavalieri armati.
Un secondo interessante riferimento riguarda la diffusione della pirateria e della tratta degli schiavi, che coinvolgeva anche le nostre repubbliche marinare. Le isole Egadi rappresentavano un buon approdo per le tante galee corsare che attraversavano il Mediterraneo da est ad ovest , da nord a sud.
Anche il Boccaccio infine, c’è da aggiungere, conferma che Trapani nel Medioevo godeva di una posizione molto privilegiata grazie al suo porto, che favoriva non solo un’intensa attività commerciale ma anche offriva un approdo sicuro per le navi dei crociati in partenza e di ritorno dalla Terra Santa. Una consistente presenza di templari, la sua vicinanza alla costa berbera, i rapporti mai interrotti con Tunisi, la presenza di tante legazioni straniere, il fiorente artigianato, l’abbondante produzione agricola, le saline, la pescagione facevano di questa piccola città un importante snodo politico, militare e commerciale.
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