La figura di Annibale Barca godette nell’antichità di una lunga fortuna fra gli scrittori di lingua greca e latina, a quali si deve la nascita e la circolazione di numerosi luoghi comuni.
Le antitetiche espressioni militares virtutes e punica fides spesso utilizzate per caratterizzarlo ben evidenziano la dicotomia che emerge dalla lettura delle fonti classiche: un atteggiamento di piena ammirazione per le indiscusse doti di stratega e di condottiero da una parte, di disprezzo e diffidenza per la sua persona dall’altra. Chiaramente il porre l’attenzione su un aspetto piuttosto che su un altro, oppure su entrambi, era funzionale alla narrazione e agli obiettivi che l’autore desiderava raggiungere attraverso questa, oltre che alla natura stessa dell’opera, poetica o in prosa. Tesserne le lodi e allo stesso modo demonizzarne la figura era, dunque, una questione di approccio.
L’immagine di Annibale condottiero è ampiamente presente in diversi scrittori. Polibio in più passi della sua opera lo celebra, accusando una personale ammirazione nei suoi confronti (Storie, II, 36,3). Annibale, intelligente e coraggioso, assume nella visione dello storico una posizione centrale nelle azioni militari del periodo storico che si accinge a narrare: “responsabile degli eventi accaduti ad entrambi i popoli, ovvero ai Romani e ai Cartaginesi, fu un solo uomo, una sola mente: Annibale. Così grande e straordinaria cosa sono un uomo e una mente perfettamente adatta per costituzione originaria a portare a termine i progetti a cui si sia dedicata” (Op. cit., IX, 22, 1-6). L’autore lo paragona per le sue doti di stratega perfino al tebano Epaminonda (Op. cit., IX, 8, 13; 9, 1-5), ne apprezza la politica espansionistica, la tattica e la strategia militare, la prudenza e l’abilità nel prevedere le azioni e gli attacchi degli avversarsi, la cura posta al dispiegamento dell’esercito e degli elefanti, l’utilizzo di varie etnie mercenarie. Polibio apprezza anche l’accortezza del comandante cartaginese nei confronti delle politiche di commistione fra gli eserciti, finalizzata a rafforzare la fedeltà reciproca (Op. cit. III, 33, 8), e i vantaggi che riuscì a trarre dalle politiche di alleanza con sovrani e popolazioni italiche. Individua in lui le attitudini caratteristiche di un buon comandante: riuscire ad esortare i propri soldati alla guerra, mantenere la buona predisposizione d’animo dell’esercito, risparmiare e ricompensare i prigionieri che avessero tradito i propri nemici, in modo così da attrarre a sé le aristocrazie detentrici del potere (Op. cit. III. 69, 1-4). Lo storico definisce Annibale un oratore e racconta di come fosse solito utilizzare i prigionieri durante i suoi discorsi di incoraggiamento ai soldati, per infondergli il desiderio di vittoria: tenendoli appositamente in cattive condizioni avrebbe mostrato ai suoi ciò che sarebbe potuto accadere se fossero stati presi prigionieri (Op. cit., III, 60, 8-10). Dall’opera polibiana emerge un giudizio estremamente positivo sulla figura e sulla condotta di Annibale: “durante la battaglia aveva compiuto tutto quanto dovesse fare un comandante abile e con ormai tanta esperienza. Se poi Annibale, dopo aver fatto tutto il possibile per vincere, fallì, proprio lui che era rimasto invitto nel tempo passato, merita comunque il perdono. Alle volte, infatti, è il caso a opporsi alle imprese degli uomini valorosi, mentre, alle volte, come dice il proverbio, «chi è valoroso si è scontrato con un altro più forte». E non c’è persona che non sia disposta a dire che allora, ad Annibale, sia successo proprio questo” (Op. cit., XV, 15, 3-6; 16, 1-6). Il destino del condottiero fu segnato dall’aver combattuto contro i Romani; ne deriva, pertanto, che l’esaltazione di Annibale è manifestamente diretta alla celebrazione di Roma: “Quindi è ovvio meravigliarsi di fronte alla capacità mostrata dal comandante in questo senso, e con sicurezza affermare che, se avesse iniziato a combattere in un’altra parte del mondo e avesse affrontato i Romani per ultimi, nessun suo progetto sarebbe fallito. Ora però, poiché iniziò a combattere contro quelli che avrebbe dovuto affrontare per ultimi, con questi segnò l’inizio e il termine delle sue imprese” (Op. cit., XI, 19, 6-7). Ciò non esclude la reale stima nei confronti del cartaginese, giacché si preoccupa perfino di polemizzare contro gli storici che hanno scritto della sua spedizione: “infatti, sono costretti a mentire e a scrivere cose in contraddizione tra loro. Infatti, presentando Annibale come un generale inimitabile e per audacia e per prudenza, poi ce lo mostrano unanimemente come del tutto privo di senno; nello stesso tempo, non potendo trovare per il loro racconto menzognero né una soluzione né una via d’uscita, introducono nel racconto di fatti storici dèi e figli di dèi” (Op. cit., III, 47. 6-9).
In Cicerone c’è poco più di un accenno alle virtù militari di Annibale, limitandosi ad annoverarlo fra i più esperti generali di tutti i tempi (Dell’oratore, I, XLVIII). Cornelio Nepote, che gli dedica un libro della sua opera, evidenzia le sue doti di condottiero “non si può negare che Annibale di tanto abbia primeggiato in sagacia fra tutti gli altri condottieri, quanto il popolo romano eccelle per forza d’animo su tutte le nazioni”, adducendo la causa della sua sconfitta al mancato appoggio da parte dei concittadini “Ma l’ostilità di molti soverchiò il valore di uno solo” (Gli uomini illustri, Annibale, 1-2). Diodoro Siculo riferisce della fama di Annibale e del padre Amilcare, i migliori comandanti cartaginesi (Biblioteca Storica, XXIII, 23 [exc. de Virt. et Vit., pp. 259-260]), soffermandosi sulla sua formazione militare: “Annibale era un combattente nato, e dal momento che era stato educato sin da piccolo alla pratica delle tecniche militari e aveva passato molti anni negli accampamenti, a fianco di grandi comandanti, acquistò molta esperienza negli scontri bellici. Poiché dunque era stato fornito dalla natura di grande sagacia, e aveva acquistato abilità strategica per il lungo tempo di pratica guerresca, si riponevano in lui grandi speranze” (Op. cit., XXVI, 2 [exc. de Virt. et Vit., p. 263]). Lo scrittore siciliano lo definisce, inoltre, il primo tra i Cartaginesi per intelligenza strategica e grandezza d’imprese, evidenziando come riuscisse a garantire unità alle diverse etnie che componevano il suo esercito (Op. cit., XXIX, 19 [exc. de Virt. et Vit., pp. 273-274]). Celebre è il suggestivo ritratto di Annibale tracciato da Livio (Storie, XXI,4)e l’immaginario colloquio tra quest’ultimo e Scipione su chi fossero i migliori condottieri (Op. cit., XXXV, 14, 5-12). Una simile conversazione ricorre anche in uno dei Dialoghi dei morti (Dialogo 12) di Luciano di Samosata, in cui l’autore dà la parola anche ad Alessandro il macedone.
Anche Silio Italico nel suo poema non si esime dall’elogiare le capacità di condottiero del cartaginese: “Era il primo ad affrontare le dure fatiche, il primo a marciare come un fante e a svolgere la sua parte, se c’era da costruire in fretta una trincea. Infaticabile in tutto quanto potesse essere di stimolo al conseguimento della gloria, rifiutava il sonno che la natura umana esige e trascorreva le notti sveglio e in armi” (Le guerre puniche, I, 242-251). Lo ritiene un maestro nell’arte della guerra - “E nel conoscere l’arte della guerra, nell’unire l’astuzia al ferro e nel vivere in luoghi inospitali adattandosi alle difficoltà non cederebbe. il passo a codesto Annibale, che è oggi il più abile guerriero” (Op. cit, VI, 307-310) -, che vantava imprese pari a quelle di Eracle (Op. cit., IV, 3-5). Inoltre, definisce Annibale un uomo sacro e invulnerabile: “Tuttavia, il rispetto, che egli [Annibale] si era guadagnato col braccio, e il terrore, che suscitavano le tante sanguinose vittorie del passato, lo preservarono quale persona invulnerabile e sacra; al posto di tutte le armi, di ogni mezzo militare e di forze fresche era sufficiente il solo nome di Annibale” (XVI, 15-19). Al poeta si deve, inoltre, la descrizione dello scudo di Annibale (Op.cit., II, 406-451), attraverso la tecnica dell’ecfrasi. Il modello poetico di riferimento fu chiaramente il celebre scudo di Achille descritto da Omero nell’Iliade (XVIII, 671-843), ma anche Lo scudo di Eracle, poema attribuito ad Esiodo, e lo scudo di Enea descritto da Virgilio nell’Eneide (VIII, 626-731). Le immagini incise sullo scudo mostrano momenti del mito e della storia cartaginese: da una parte la leggenda della fondazione di Cartagine e la venuta di Enea e il suo incontro con Didone, dall’altra Annibale assieme alla sacerdotessa stigma, che “offre supplice agli altari degli dèi infernali una segreta libagione di sangue e giura di condurre guerre contro gli Eneadi fin dalla giovinezza”, l’anziano Amilcare in Sicilia e Santippo con il contingente spartano. Sui lati dello scudo è raffigurata la crocifissione di Regolo e a delimitarlo è il fiume Ebro con Annibale che attraversa le sue rive, intenzionato a muovere guerra a Roma. Le imprese di Annibale a dire di Giovenale erano anche argomento di esercitazioni scolastiche (Satire, VII,158-166) e secondo Appiano la sua fama di condottiero fu proverbiale, tanto che i Celtiberi chiamavano Sertorio “Annibale” per la rapidità nell’azione (Storia romana, XIII, 112, 522). Vegezio, infine, all’origine dei successi di Annibale vede l’arte della guerra degli Spartani: “Quanto giovamento abbia recato nelle guerre la scienza degli Spartani lo spiega, per non riportarne altri, l’esempio offerto da Santippo...portando lui da solo aiuto ai Cartaginesi non con il coraggio, ma con la sua arte...Non diversamente si comportò Annibale, che, mentre si preparava ad attaccare l’Italia, si procurò un maestro di tattica spartano, grazie agli insegnamenti del quale abbatté, pur inferiore nel numero e nelle forze, un così grande numero di consoli e di legioni” (L’arte della guerra romana, III, prol. 5-7).
Per quanto concerne la persona e l’indole di Annibale, diversi furono gli aspetti del suo carattere su cui gli studiosi antichi si soffermarono. Polibio riporta le opinioni circolanti sul suo conto: alcuni ritenevano che fosse stato eccessivamente crudele, accusandolo degli atti di ferocia perpetrati in Italia (Op. cit., IX, 22. 7-8), altri troppo venale e desideroso di potere. Lo storico afferma di aver appreso tali notizie dai Cartaginesi stessi e da Massinissa, secondo il quale la venalità dei Cartaginesi e di Annibale era proverbiale (Op. cit., IX, 25, 1-6). Polibio naturalmente sottolinea la difficoltà di stabilire la veridicità di simili dichiarazioni; piuttosto, secondo lo storico ebbero una negativa influenza sulle scelte di Annibale sia le circostanze sfavorevoli sia i consigli degli amici, portandolo in alcuni casi a dover infrangere i patti stabiliti con alcune città, motivo per cui fu accusato di ferocia ed empietà. “Quindi è assai difficile esprimere un giudizio sulla vera natura di Annibale. L’opinione più diffusa che viene accettata presso i Cartaginesi è che fosse venale, mentre presso i Romani si dice che fosse crudele.” (Op. cit.,, IX, 26, 10-11). Cicerone lo definisce astuto e abile nel celare, dissimulare, tendere insidie, prevedere le mosse del nemico (Dei Doveri, I, 108), mentre Seneca scrive che si rese famoso per le rovine di cui era causa e che era un uomo che poteva rassegnarsi anche a vivere senza patria, ma non senza un nemico (Questioni naturali, Libro III, prefazione, 5-6). Sul carattere di Annibale Livio scrive: “grandissimi vizi pareggiavano virtù così grandi: crudeltà disumana, malafede più che punica, nessun rispetto per la verità, nessun rispetto per il sacro, nessun timore degli dèi, nessun rispetto per i giuramenti, nessuno scrupolo”. (Op. cit., XXI, 4). Luoghi comuni, divenuti ormai proverbiali, su Annibale e la sua furbizia, la sua pericolosità e l’attitudine alle insidie, circolavano largamente a Roma, come si evince da alcune affermazioni di Petronio (Satyricon, 50; 101): “ Di che razza di insidie mi state parlando, "aggiunse" e quale altro Annibale naviga con noi? Lica di Taranto, un uomo molto perbene...”. Celebri furono gli aneddoti sulla sua furbizia e sulla sua scaltrezza. Cornelio Nepote riporta l’espediente delle statue bronzee che Annibale riempì delle sue ricchezze: facendo credere ai notabili cretesi che volesse affidare loro le sue ricchezze, fece colmare di piombo numerose anfore, ricoprendole alla sommità d’oro e d’argento, e le depose nel tempio di Diana (Op. cit., 9, 2-4). Lo scrittore ricorda anche di quando Annibale riempì di serpenti dei vasi di terracotta, che ordinò poi di lanciare contro le imbarcazioni durante lo scontro navale con Eumene: “In tal modo Annibale vinse con l’astuzia le armi di Pergamo, e non solo questa volta, ma anche in seguito in battaglie terrestri, sconfisse i nemici con pari scaltrezza” (Op. cit., X, 4-5; XI, 5-6).
Annibale era anche un celebre orditore d’inganni: un episodio riportato da Polibio (Op. cit. III, 78, 1-4), da Livio (Op. cit., XXII, 1, 3-4) e da Appiano (Op. cit., VII, II, 6) riferisce che Annibale, per verificare la lealtà degli alleati celti e difendersi da eventuali congiure, era solito utilizzare travestimenti e parrucche per muoversi liberamente fra loro. Polibio definiva questo uno stratagemma “degno dei Cartaginesi”. Un altro degli inganni perpetrati da Annibale è ricordato da Livio (Op. cit., XXVI, 6, 9-13) e da Appiano (Op. cit., VII, VII, 41-42) in occasione dell’assedio dell’accampamento presso Capua: in quell’occasione il condottiero fece penetrare nel campo alcuni suoi uomini conoscitori della lingua latina, in abito italico, e dire che il console Fulvio Flacco ordinava l'abbandono del campo. I due autori (Livio, Op. cit., XXVII, 28, 4-5; Appiano, Op. cit., VII, VIII, 51) riportano anche un altro celebre episodio di inganno ordito da Annibale, anche in questo caso non andato a buon fine, contro gli abitanti di Salapia: fece inviare un disertore romano con una lettera recante il sigillo di Marcello, di cui si era appropriato prima che si diffondesse la notizia della sua morte, in cui si avvisava dell'imminente arrivo dell'esercito di Marcello e in cui si ordinava l'immediata apertura delle porte della città. Un altro stratagemma è riportato da Silio Italico, quando Annibale per individuare l’imbarcazione di Eumene fece inviare al sovrano una lettera da un suo messo (Op. cit., 11, 1-3). Diversi sono gli aneddoti riportati da Appiano: dall’episodio della fuga dei buoi con le fascine accese per far credere ai Romani di Fabio che i Cartaginesi stessero abbandonando l’accampamento nella notte (Op. cit. VII, III, 14-15), a quello dei cinquecento Celtiberi durante la battaglia di Canne fintisi disertori al cospetto di Servilio (Op. cit., VII, IV, 22-23). Diversi sono anche i passi che fanno riferimento alla crudeltà di Annibale e alla brutalità con cui faceva massacrare i nemici. Polibio ricorda quando il condottiero fece trucidare i Taurini che si erano opposti alla sua proposta di alleanza con lo scopo di attirare a sé con la paura gli abitanti dei luoghi circostanti (III, 60, 8) e quando fece crocifiggere i nemici dinanzi le mura (Op. cit., X, 33, 8). Cicerone (Dei Doveri, I, 38; L'amicizia, 8, 28) e Plinio il Vecchio (Storia naturale, VIII, 18) fanno riferimento alla sua crudeltà, mentre Ovidio lo definisce crudele (Odi, II, 12, 1-4: a Mecenate; III, 6, 33-44: la virtù degli antichi), perfido (Op. cit., IV, 4, 37-76: per le vittorie di Druso) e “maledetto dai nostri padri” (Epodi, XVI, 3-8: oltre i lidi etruschi). Annibale era conosciuto anche per i suoi ozi e per i suoi vizi: celebre è la vicenda degli ozi di Capua, riportata da Livio (Op. cit., XXIII, 18, 9-16), e Appiano (Op. cit., VII, VII, 43), che scrissero che il condottiero si immerse nel lusso più sfrenato, dedicandosi ai piaceri dell’amore, e da Seneca,che afferma che Annibale, vincitore in battaglia, fu però sopraffatto dai vizi (Lettere a Lucilio, Libro V, lettera 51. I luoghi di soggiorno più adatti al saggio). Annibale incarna pienamente, a dire di molti autori antichi, il concetto della fides punica. Livio riporta un aneddoto che lo avrebbe visto protagonista di questa mancata lealtà in occasione della cattura di alcuni prigionieri (Op. cit., XXII, 6, 11-12), ma ritiene più fedele la versione di quanti parlano della fedeltà di Annibale, affermando che gli abitanti di Casilino furono liberati dopo aver consegnato tutto l'oro (XIII, 19, 15-17). Silio Italico, infine, scrive di Annibale che era nemico della lealtà e della giustizia: “Egli era per indole bramoso di agire e nemico della lealtà, eccelso nell’astuzia, ma lontano dalla strada della giustizia. Quando impugnava le armi non aveva alcun rispetto degli dèi, era valoroso, ma di un valore volto al male, disprezzava la gloria che deriva dalla pace e ardeva per sete di sangue umano fin nel profondo dalle midolla” (Op. cit., I, 56-60).
Non mancano però giudizi positivi sulla sua persona: le fonti parlano anche del suo atteggiamento di pietà e di timore religioso. Polibio ricorda quando il condottiero, impegnato nei conflitti con le popolazioni celtiche, durante un’assemblea invoca gli dèi in nome di tutto il suo esercito (Op. cit., III, 44, 13). Livio e Appiano (Op. cit., VII, VI, 40) riportano che il condottiero decise di non attaccare Roma perché una divinità l’aveva distolto da una tale azione: “In timor religioso si volse questo fatto presso i Punici, e si narra che fu udito Annibale dichiarare che a lui negavano gli dèi ora la volontà ora la fortuna di prendere Roma” (Livio, XXVI, 11, 2-8). Livio afferma anche che Annibale, come in passato Pirro, non aveva osato profanare, a differenza di Q. Fulvio Flacco, il tempio di Giunone Lacinia a Crotone (Op. cit., XLII, 3, 6). Altri autori ci riferiscono che il condottiero era solito chiedere responsi agli oracoli. Silio Italico riporta che Annibale chiese un presagio favorevole alla sua impresa ad Ammone Siwa, per conoscere in anticipo gli avvenimenti futuri e le vicende della guerra (Op. cit., III, 5-13), e che si prestò alla divinazione di Bogo (Op. cit., IV, 131-133). Pausania riporta, invece, il responso ricevuto da Ammone sulla sua morte, che però lo trasse in inganno (Guida della Grecia. L'Arcadia, VIII, 11, 10-11). Silio scrive anche che Annibale fu condotto nel santuario di Elissa, dove una sacerdotessa massila invocava Proserpina/Core (Op. cit., I, 93-103). Livio riporta che Annibale era anche solito sciogliere voti alle divinità, come quando alla vigilia della Seconda guerra punica sciolse dei voti ad Ercole (Op. cit., XXI, 21, 9-10) e consacrare doni, come quando consacrò nel tempio di Giunone Lacinia a Crotone un altare con una lunga iscrizione bilingue, in caratteri greci e punici, delle imprese da lui compiute, (Op. cit. XXVIII, 46,16). Era solito eseguire anche solenni sacrifici per ingraziarsi le divinità: Silio ci narra del sacrificio di un toro bianco a Zeus, a Marte e a Mercurio (Op. cit., III, 216-219) e di un agnello a Zeus (Op. cit., XXI, 45, 4-9).
In Annibale è ricorrente anche il sentimento di pietas nei confronti dei cadaveri dei propri nemici. Diodoro Siculo ricorda di quando il condottiero garantì un decoroso funerale a Tiberio Sempronio Longo, (Op. cit., XXVI, 16 [exc. de Virt. et Vit., pp. 264-265]; Silio Italico scrive che Annibale avvolse le spoglie di Emilio Paolo con un drappo di ricca porpora (Op. cit., X, 568-571); Appiano ricorda di quando Annibale, tributati gli onori funebri a Tiberio Gracco, fece inviare le spoglie mortali a Roma (Op. cit., VII, VI, 35), e di quando fece ardere il corpo di Claudio Marcello con grandi onori e inviò nel campo romano le ossa al figlio (Op. cit., VII, VIII, 50).
Da Cornelio Nepote sappiamo anche che Annibale fu un uomo dedito agli studi e che scrisse dei libri in greco, uno dei quali dedicato ai Rodii sulle imprese di Gneo Manlio Volsone in Asia (Op. cit., 13, 2). Cita anche gli storiografi personali di Annibale, Sileno e Sosilo, al suo fianco nelle battaglie, quest’ultimo anche suo maestro di lettere (Op. cit., Annibale, 13, 3). Anche Diodoro cita Sosilo e afferma che scrisse una storia di Annibale in sette libri (Op. cit., XXVI, 4 [exc. Hoesch., pp. 513]).
Su Annibale è possibile individuare anche alcuni temi ricorrenti in letteratura, quali l’immagine di Annibale alle porte, il giuramento di Annibale e l’esilio e la morte di Annibale. La leggenda del giuramento di Annibale contro Roma è riportata da Polibio (Op. cit., III, 11, 1-8) e da Cornelio Nepote (Op. cit., Amilcare, 4, 3; Annibale 1,3; 2, 2-6): utilizzano l’artificio retorico del discorso diretto, facendo parlare direttamente Annibale che, accusato di tramare insidie nei confronti di Antioco III di Siria, si preoccupava di assicurare la propria fedeltà. Tale tradizione è presente anche in Livio (Op. cit., XXI, 1, 4; XXXV, 42, 3-43, 2), in Silio Italico: “non appena Annibale cominciò a parlare e ad articolare i primi suoni, Amilcare, abile nel coltivare odi furenti, seminò nel cuore del ragazzo la passione di far guerra a Roma” (Op. cit., I, 70-80) e in Appiano: “Si diceva anche che quando era ancora un ragazzo aveva giurato sull’altare insieme al padre eterna inimicizia contro Roma” (Op. cit., VI, II, 9). Anche l’immagine di Annibale alle porte è alquanto ricorrente in Plinio il Vecchio (Op. cit., XV, 74-76) e in Silio: “Tu progetti di portare una nuova guerra nelle terre di Libia: forse che mancano nemici in Ausonia, o non ci basta vincere Annibale?...Forse che, quando tu devasterai la Sirte e gli sterili deserti, quel flagello non darà l’assalto alle mura di Roma, che egli ben conosce, e non invaderà la sede di Giove priva di uomini e di armi?” (Op. cit., XVI, 611-624).
Diverse sono le fonti classiche che narrano delle vicende di Annibale dopo gli avvenimenti di Zama. Polibio dice che il condottiero, dopo la sconfitta in Africa, andò a vivere presso Antico (Op. cit., III, 11, 1), Silio Italico riporta la profezia sull'esilio e sulla morte di Annibale in Bitinia (XIII, 874-893). Cornelio Nepote parla della sua fuga in Siria e del suo appoggio ad Antioco in funzione antiromana, oltre che della condanna all’esilio da parte dei Cartaginesi (Op. cit., Annibale, 7, 6-7; 8, 3-4); fa riferimento, inoltre, alla sua visita nel Ponto, presso la corte di Prusia, per incitare il sovrano a combattere contro i Romani (Op. cit., Annibale 10,1). Diodoro riporta che Antioco aveva riposto in lui ogni speranza, che l'ebbe come amico fidato e che seguiva ogni suo consiglio (Op. cit., XXIX, 3 [exc. de Virt. et Vit., pp. 271-272]). Livio (XXXIII, 45, 5-8; 49, 4-7; XXXIV, 43,4; XXXIV, 60, 1-6) e Appiano (Op. cit., XI, IV, 15-16; XI, VII) parlano del vantaggioso incontro tra il sovrano Antioco e Annibale, il quale mise a disposizione la sua esperienza e i suoi consigli per piegare la potenza romana. Anche Dione Cassio ricorda l’esilio di Annibale, assieme a quello di altri uomini illustri del passato (Storia romana, XXXVIII, 26, 2-3). Diversi autori antichi narrarono della morte di Annibale: Nepote riporta che avvenne per ingerimento di veleno, che portava sempre con sé (Op. cit., Annibale, 12, 5), mentre Pausania a seguito di un’infezione causata da una ferita da spada (Op. cit., L'Arcadia, VIII, 11, 10-11). Diodoro (Op. cit., XXV, 19 [Tzetzes, Hist. I 700-802]), Plinio il Vecchio (Op. cit., V, 148) e Appiano (Op. cit., XI, XI) riferiscono che morì in Bitinia. Sull’anno di morte c’è, invece, disaccordo fra le fonti, come riferisce Cornelio Nepote stesso: “…Attico nei suoi Annali lasciò scritto che essa avvenne nell’anno consolare di Marco Fabio Marcello e Quinto Fabio Labeone; Polibio, invece, in quello di Lucio Emilio Paolo e Gneo Bebio Tanfilo; Sulpicio Blitone, infine, in quello di Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo” (Op. cit., Annibale, 13, 1). Livio, infine, ricordando la tradizione della morte di Annibale (Op. cit., XXXIX, 51), la paragona a quella di altri due personaggi celebri, Filopemene e Scipione per una fine non degna della loro grandezza (Op. cit., XXXIX, 52, 7-9).
(ed. 2012)